La libertà non può diventare libero arbitrio

di Massimo Adinolfi
Mercoledì 21 Luglio 2021, 23:36 - Ultimo agg. 23 Luglio, 06:00
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Non si sa ancora quale sarà il punto di caduta sul green pass: a cosa servirà, a chi servirà e per accedere a quali spazi, quali servizi, quali ambiti della vita sociale e pubblica. La scuola, i luoghi di lavoro, i luoghi di ritrovo, i mezzi di trasporto? Una simile discussione non avrebbe senso e non comincerebbe neppure, se non si trattasse di contemperare esigenze diverse: da un lato le libertà individuali, dall’altro la salute pubblica. Contemporare significa proporzionare: il giorno in cui la Corte Costituzionale, in un futuro prossimo o remoto, fosse chiamata a giudicare la costituzionalità di disposizioni di legge adottate per contrastare la diffusione del virus, potete star sicuri che produrrebbe questo genere di valutazioni di proporzionalità fra eventuali limitazioni introdotte o da introdurre, beni fondamentali da tutelare, rischi e pericoli incombenti.

Ne possiamo ricavare un’utile istruzione: dipingere il green pass come l’anticamera della dittatura sanitaria, rifiutando per principio di entrare in qualunque discussione riguardi il suo uso più o meno temperato è semplicemente da irresponsabili. Equivale a figurarsi una libertà come puro e semplice arbitrio, come sfrontata indifferenza a qualunque forma di obbligo sociale. Il che non vuol dire che i sistemi sociali non siano o non debbano essere robusti abbastanza da sopportare anche certi comportamenti distorti: una mia cattiva condotta alimentare, ad esempio, scarica costi che la collettività si assume, in termini di prestazioni che mi sono erogate.

Ma questo non significa che io possa tenere qualunque cattiva condotta, o che possa scaricare ogni genere di costi sul servizio sanitario nazionale. Contemperare, si diceva: se questa parola fiorisse un po’ di più sulle bocche di tutti, il dibattito pubblico ne guadagnerebbe.

Chi proprio pensa che non vi sia nulla da mettere in equilibrio, e che non si debba nemmeno entrare in quest’ordine di considerazioni, in questo esercizio più o meno stringente di ragionevolezza democratica è Giorgio Agamben, e non metterebbe conto di occuparsene se non fosse il filosofo italiano più influente al mondo. Le sue opinioni vengono riprese in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, persino in Giappone. E anche qui in Italia, naturalmente. Se per esempio Agamben scrive un pezzo dal titolo «L’invenzione della pandemia» (ohibò: lo ha scritto davvero) state sicuri che fa il giro del mondo (lo ha fatto, in effetti, e non è stato un bel vedere). Ebbene, Agamben è tornato a far sentire la sua voce autorevolissima a proposito del green pass. Dapprima ha sostenuto che il green pass discrimina ingiustamente ed esclude dalla vita sociale quanti, rifiutando di vaccinarsi, non ne entreranno in possesso, e purtroppo – gli si lasci pure l’uso della parola ad effetto, «esclusione» – non si è preoccupato di aggiungere una sola parola sulla misura, cioè sull’entità di questa esclusione, che è l’unica cosa di cui in realtà valga ragionevolmente la pena di discutere.

Poi, non avendo detto abbastanza sulla sua contrarietà alla «tessera verde», ha aggiunto che lo scopo principale di un simile provvedimento  è «un controllo minuzioso e incondizionato su qualsiasi movimento dei cittadini, del tutto analogo al passaporto interno che nel regime sovietico ognuno doveva avere per potersi spostare da una città all’altra».

Eccola, la dittatura sanitaria, il totalitarismo, la società del controllo, il «Panopticum» di Jeremy Bentham o il Grande Fratello di George Orwell: il green pass non serve tanto a escludere, quanto piuttosto a sorvegliare qualsiasi nostro movimento, dice allarmatissimo il filosofo.

Ora, vi sono molti modi per replicare a simili sciocchezze, proferite come se non avessimo già in tasca il telepass, la tessera sanitaria, la carta di credito. Abbiamo computer a casa e nelle nostre auto, strisciamo il badge sul luogo di lavoro, raccogliamo i punti con la fidelity card del supermercato e passiamo ogni giorno dinanzi a chissà quante telecamere di sorveglianza (a non dire dei nostri smartphone): mentre Agamben paventa il controllo minuzioso e incondizionato delle nostre vite, serissime persone riflettono più concretamente sul modo in cui tutelare la privacy lungo tutti questi percorsi. Democrazia, infatti, non significa assoluto anonimato e completa irresponsabilità. La democrazia, piuttosto, si distingue dal totalitarismo (da cui Agamben pensa invece che non sia essenzialmente distinta) per il modo in cui chiede conto alle autorità competenti della misura e dell’uso che fa delle informazioni che raccoglie sul nostro conto, non già perché ne proibisce assolutamente la raccolta. Cosa impossibile e vana, peraltro, come vano sarebbe – anzi terribilmente stupido e infine dannoso – bruciare in un unico falò tutti i chip già ben inseriti nelle nostre giornate.

Però un argomento Agamben ce l’ha, se proprio vuol sostenere la sua cupa visione del futuro. Eccolo: giusto novant’anni fa, per ragioni di pubblica sicurezza, fu introdotta in Italia nientedimeno che la carta d’identità, la madre di tutti i lasciapassare, di tutte le identificazioni a norma di legge. Basta allora fare due più due: nel 1931 c’era il fascismo, la carta d’identità era, sembra chiaro, un’esigenza illiberale del regime. E dunque: si può ben essere contrari al green pass, al modo di Agamben, a patto però di ribellarsi anche alla carta d’identità, e allo strisciante autoritarismo di cui sarebbe – come non vederlo? – espressione massima. Diversamente, infatti, se la si vuol continuare a tenere senza paura nel portafoglio, senza percepirvi un attentato alla libertà, allora si dovranno trovare argomenti un po’ più fondati per gridare al lupo della dittatura, invece di fare quel che c’è da fare: misurarsi sul terreno concreto delle limitazioni proporzionate e degli incentivi ragionevoli. 

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