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La Manovra alla prova del voto in Parlamento

di Giuseppe Vegas
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 25 Novembre 2022, 23:49
4 Minuti di Lettura

Non era facile portare in Consiglio dei ministri, subito dopo elezioni con un risultato importante, una manovra finanziaria che nella sostanza rinuncia, sia pure elegantemente, a mantenere da subito alcune promesse elettorali. In verità, qualche tributo è stato pagato sull’altare della coerenza tra aspirazioni e realtà, ma non si è andati oltre l’offerta di alcuni segnali, sia pure di significato politicamente rilevante. E, come sempre, accanto ad interventi condivisibili, se ne possono osservare altri che lo sono di meno.

Nondimeno, la manovra più che per i singoli provvedimenti, è però significativa per la sua misura complessiva. Sotto due aspetti in particolare.
Anzitutto, per non aver disperso in mille rivoli gli interventi disposti. Certamente sono molte le linee di intervento, ma è assai apprezzabile la concentrazione - ad un livello mai avvenuto in precedenza - delle finalizzazioni della spesa pubblica, per circa i due terzi della manovra indirizzandola verso il contenimento dei costi dell’energia per famiglie e imprese. Per tale via, il sollievo offerto dall’intervento pubblico non è meramente di facciata e, contemporaneamente, risulta finalizzato a sostenere sia la domanda sia l’offerta, in modo da contrastare i segnali di rallentamento della nostra economia.

Non a caso, le previsioni circa l’andamento del Pil per il prossimo anno restano positive, malgrado nuvole nere si addensino all’orizzonte.
In secondo luogo, per non aver ceduto, se non in modo assai contenuto, alla sirena della copertura della spesa con la creazione di nuovo debito, con il ricorso cioè all’espediente costituito dalla possibilità di utilizzare (previo assenso del parlamento) la procedura dello “scostamento” di bilancio, che consente di incrementare il livello dell’indebitamento netto, così come definito dal documento di programmazione finanziaria (Def). Espediente cui si è fatto ricorso con una certa ampiezza negli ultimi due anni, in ragione dell’eccezionale gravità delle conseguenze economiche e finanziarie della pandemia. Oggi che le situazioni di crisi si sono trasformate in assodata modalità di svolgimento dei rapporti economici, bisognava in qualche modo riportare all’ordinario ciò che solo poco prima era straordinario. Da qui il fatto di avere ancora mantenuto lo strumento, ma di avervi fatto ricorso, con una sorta di decalage, esclusivamente in via residuale e limitata. Non si può inoltre trascurare la circostanza che lo spostamento dell’onere della spesa ad esercizi futuri, cioè la creazione di nuovo debito si risolve in null’altro che un onere a carico delle nuove generazioni, che si avvicinano già oggi al mercato del lavoro con sulle spalle un basto assai pesante. Va notato che più la spesa cresce, più risulta difficile cambiare le politiche esistenti ed operare scelte economiche di rottura rispetto agli schemi del passato. E così, per non disturbare chi è abituato a godere di trasferimenti pubblici, si finisce per adottare un approccio estremamente conservatore, che non potrà che pregiudicare la possibilità di innovare ed adeguare alle necessità del presente il tessuto economico nazionale.

La spesa pubblica, e con essa il debito, si appresta dunque ancora una volta a crescere nel prossimo anno, il che non è assolutamente un bene, ma la scelta può trovare una ragione nella necessità di sostenere l’economia in una fase di crisi. Ne consegue che il suo innalzamento deve necessariamente risultare contenuto, poiché un suo incremento eccessivo potrebbe portare alla rottura della stabilità finanziaria del Paese, con conseguente fuga degli investitori, e segnatamente dei portatori di titoli di Stato. Nel caso inoltre in cui si verificasse disequilibrio insostenibile tra entrate e spese, occorrerebbe farvi fronte mediante un consistente inasprimento della pressione tributaria o un ridimensionamento delle linee di spesa. Ma nessuno vorrebbe ripercorrere l’esperienza della Grecia.

La ragionevolezza è dunque prevalsa. E di ciò dobbiamo dare merito al premier Giorgia Meloni e al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Anche se, per la verifica della saldezza dei propositi e della tenuta dell’esecutivo, occorrerà attendere la prova del nove del dibattito in Parlamento. È lì infatti che spesso la guerra di trincea, fatta anche di logoramenti e trabocchetti, tra il governo e la sua maggioranza ha portato a testi finali di legge anche assai differenti da quelli iniziali. Certamente il governo, alla mala parata, dispone del “silver bullet” della fiducia - della possibilità cioè di imporre alle Camere un’unica votazione su un testo onnicomprensivo, sul quale non sono ammesse cancellazioni o modifiche - ma si tratta di uno strumento che in genere si preferisce non utilizzare all’inizio di legislatura, quando rischierebbe di rappresentare un segnale di debolezza dell’esecutivo. In Parlamento, in conclusione, si misurerà il polso fermo e la barra dritta di chi guida il governo.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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