La parità di genere non è un ristoro

di Antonella Laudisi
Venerdì 26 Marzo 2021, 00:11 - Ultimo agg. 07:00
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C’è chi, come la deputata pd Rosa Maria Di Giorgi, definisce «generoso» il gesto del capogruppo Delrio, pronto a dimettersi per lasciare l’incarico a una donna: in pole Debora Serracchiani e Marianna Madia (chi vincerà lo sapremo solo la prossima settimana).

Ma la lingua si sa è piena di tranelli. È così che l’aggettivo tradisce un modo spiccio per derubricare la questione di genere appellandosi alla pratica solo numerica delle quote rosa. La generosità è di per sé un atto calato dall’alto che implica in chi ne è oggetto la totale passività. «Fare il generoso» - avvertono i linguisti della Treccani - significa «compiere un atto di generosità (anche morale) facendone sentire il peso».

E allora no, così non va. Dice bene Luciana Castellina, che certo nessuno potrà mai tacciare di anti-femminismo, «potremmo anche occupare più posti in un governo, e ovviamente sono favorevole, ma se non modificheremo leggi, codici e orari, abbattendo il modello maschile che ci viene spacciato come neutro, non ne verremo a capo». E aggiunge, in una intervista a La Repubblica, rispondendo sulla presenza nel governo di solo 8 donne su 23, «non è bello, perché non ci hanno pensato, nemmeno Draghi. Ma non lo ritengo decisivo. Vantiamo un credito storico. E quindi allora bisognerebbe stabilire il 75 per cento della presenza femminile per risarcire la discriminazione millenaria, come affermava il codice della Repubblica popolare cinese, anche se poi se lo sono dimenticato».

La corsa alla concessione riparatoria di un posto tra le cariche che contano, da parte del segretario dem Enrico Letta, appare fastidiosa a chi crede che la parità di genere in Italia, ancora lontana dall’essere raggiunta, sia necessaria. Ma che arrivi in un processo di reale maturazione della società. Perché in tutta la vicenda interna al Pd quello che emerge è il profondo, seppure involontario, sessismo comune. Un male più diffuso di quanto si voglia ammettere, anche da «quella sinistra che parte dall’assunto assolutamente infondato di non essere sessista», dice la scrittrice Michela Murgia.

La verità fa male. Ma le donne stesse, oggetto della «generosità» maschile a riparazione di un torto, alimentano certe disparità. E se così non fosse le parlamentari del Pd avrebbero dovuto declinare con fermezza la concessione di un posto, sostenendo che una donna è sempre la prima scelta, non un ripiego per placare le coscienze. Dei maschi.

«Credo che sia sbagliato derubricare la questione di genere, risolverla chiedendo ai due capigruppo di farsi da parte, è sbagliato come impostazione, si deve andare in profondità, nei metodi di crescita della classe dirigente»: dice bene il capogruppo pd al Senato Andrea Marcucci.

E faccio salva la sua onestà intellettuale e la sincerità nell’affermare il principio del «metodo di crescita della classe dirigente», anche di fronte ai maligni che potrebbero immaginare in queste affermazioni una difesa della poltrona; una sorta di effetto “nimby” (Not in my backyard, non nel mio cortile) della parità di genere. Anche se poi il passo indietro l’ha fatto, il senatore Marcucci in favore di Simona Malpezzi che ha subito chiarito: chiamatemi la presidente. «Anche nel linguaggio c’è una specificità, quella di essere una presidente donna, che significa portare le istanze delle donne in politica e quindi una leadership femminile. Questo percorso, nel partito, grazie a tante altre compagne, è già iniziato», ha poi spiegato.

Tutto è bene quel che finisce bene? Ma anche no.

La vicenda interna al Pd scopre il nervo degli alibi ideologici che non tengono più; perché non basta stare a sinistra per garantire l’uguaglianza tra uomo e donna. Ma soprattutto fa emergere il senso di subalternità di quelle donne che accettano di buon grado l’elemosina autoassolutoria dei maschi, glorificando una vittoria dove vittoria non c’è. L’occupazione degli spazi non va subita per grazia ricevuta ma pretesa attraverso un processo che segni il cambiamento della comunità in cui si opera. Nella politica, come nel lavoro, quello che serve è un cambio profondo di mentalità. Una educazione alla parità che parte dalle donne stesse chiamate non a rivendicare un posto ma la condizione per occuparlo. Perché quello che va compreso e modificato è il meccanismo che ancora porta in Italia, a parità di qualità, a scegliere per un ruolo apicale un uomo invece che una donna.

Cosa, nel meccanismo della crescita sociale complessiva, ancora non funziona? È questa la domanda sulla quale ragionare, invece di appellarsi alle quote rose come panacea a un male profondo che non trova cura in un principio di tutela valido per le donne come per i panda in via di estinzione. In tempo di malattia pandemica la parola “ristoro” si è fatta familiare e messa così, la questione femminile all’interno del Pd - specchio di una nazione - pare quasi un risarcimento, tardivo quanto irritante. 

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