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La parola ai cittadini sullo sfascio giustizia

di Carlo Nordio
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 11 Febbraio 2022, 23:45 - Ultimo agg. : 12 Febbraio, 07:00
4 Minuti di Lettura

Parlando agli assistenti di studio, il Presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, ha detto ieri: «I referendum sono una cosa molto seria, e perciò bisogna evitare di cercare a ogni costo il pelo nell’uovo e buttarli nel cestino». Poiché sulla sorte degli otto referendum proposti dai radicali e dalla Lega la Corte si pronuncerà tra pochi giorni, può sembrare singolare che chi la rappresenta intenda anticiparne la decisione. Ma in realtà non è così. Qui non si tratta di un giudizio di merito sulla costituzionalità di una legge, ma di un chiarimento sui principi che devono ispirare l’ammissibilità o meno di un voto richiesto da quasi un milione di cittadini e da nove consigli regionali. Bene dunque ha fatto Amato a definirne i contorni, correlandoli alla sostanza delle cose più che alle formalità delle procedure. Se poi, dal punto di vista tecnico, alcuni quesiti dovessero esser rimodulati, la Corte lo farà nel modo migliore. Ma che i referendum si debbano celebrare pare ormai assodato, anche perché l’esperienza e l’autorevolezza del Presidente lasciano presumere che non si tratti di un’opinione strettamente personale. 

Come è noto, i quesiti vertono su materie assai delicate, a cominciare dall’eutanasia. Qui ci limitiamo a commentare quelli sull’amministrazione della Giustizia, che sta attraversando la crisi peggiore dalla nascita della Repubblica.

Non solo perché la credibilità della magistratura è precipitata dopo gli scandali che hanno coinvolto il suo sindacato e il Csm; non solo perché la Procura simbolo di Mani Pulite è infarcita di indagati, tra l’altro in conflitto tra loro; non solo perché le risoluzioni dell’organo di autogoverno delle toghe sono state ripetutamente annullate «per manifesta irragionevolezza» dal supremo giudice amministrativo; ma perché le parole pronunciate da Mattarella nel suo discorso di (re)insediamento sono suonate come una campana a morto per un sistema che deve «recuperare un profondo rigore». E se deve recuperarlo, significa che l’ha perduto.

I quesiti previsti dal referendum non sono in realtà idonei a rimediare a questo disastro. La stessa affermazione di responsabilità civile dei magistrati, già oggetto di una pronuncia popolare alla fine degli anni ‘80, non risolverebbe i problemi costituti dall’arroganza e dal protagonismo di una minoranza di toghe che spesso hanno imbastito procedimenti lunghi e costosi, devastando l’onore dei cittadini, compromettendone le carriere, dissestandone le finanze e rovinandone le vite. Secondo noi il magistrato inetto, fanatico o infedele, non va colpito nel portafoglio, protetto da un’assicurazione, ma va sanzionato nella carriera, e se del caso radiato dall’ordine giudiziario.

Per gli altri quesiti, il discorso è il medesimo. Anche la separazione delle carriere, sacrosanta perché consustanziale al processo accusatorio introdotto nel 1989, non può essere attuata senza una revisione costituzionale, e comunque da sola cambierebbe poco le cose. Perché allora, malgrado i suoi limiti, questo referendum è importante, e vi abbiamo subito aderito con entusiasmo? Per la semplice ragione che nel nostro strano ma bellissimo Paese i referendum hanno quasi sempre avuto un significato che trascendeva il contenuto del quesito. I due esempi più clamorosi avvennero a distanza di quarant’anni. La prima volta nel 1974, sull’abrogazione del divorzio, quando diventò un duello squisitamente politico tra la Dc di Fanfani e il Partito comunista. Il divorzio fu mantenuto a grande maggioranza, la Dc ripiegò con gravi perdite, e l’anno seguente il Pci stravinse le elezioni amministrative fino a rasentare, nel 1976, il famoso sorpasso. La seconda volta, nel 2016, una riforma costituzionale che quasi tutti volevano e avevano patrocinato, fu personalizzata da Matteo Renzi, così da farne un plebiscito pro o contro il suo ruolo emergente. Il risultato fu, come nel ’74, squisitamente politico: il referendum fallì, e Renzi se ne dovette andare.

Ora si ripresenta una situazione analoga. Il contenuto dei quesiti cede di gran lunga alla gravità del messaggio che il popolo può trasmettere sul sistema della Giustizia. È persino superfluo che il cittadino, leggendo la scheda elettorale, capisca qualcosa dei commi e sottocommi che vi sono citati. Del resto non ci capiamo nulla nemmeno noi, che un po’ di diritto lo mastichiamo. Tuttavia, come nel ’74 i votanti sapevano di pronunciarsi pro o contro Fanfani, e quarant’anni dopo pro o contro Renzi, ora sanno perfettamente di dover scegliere tra il mantenimento di questo sistema giudiziario frantumato dall’inefficienza e corroso dagli scandali, o inviare un monito severo al Parlamento affinché lo cambi radicalmente. Sarebbe una rivoluzione copernicana di cui il Paese ha ormai uno stringente bisogno. Come ha detto il Presidente Mattarella, e come probabilmente pensa il Presidente Amato. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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