La scalata di Maurizio Sarri
il self made man del calcio

di ​Gianfranco Teotino
Venerdì 21 Giugno 2019, 00:00
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Dove era Sarri quando la Juve, con l’arrivo di Conte, cominciò la sua insopportabile (per gli altri) corsa verso gli otto scudetti consecutivi? Allora Sarri era l’allenatore del Sorrento, Lega Pro, Prima Divisione, insomma C1. Almeno lo era all’inizio della stagione. Perché poi, il 14 dicembre 2011, dopo quattro sconfitte consecutive, venne esonerato. Non era la prima volta, sarebbe stata l’ultima.

Riesce difficile solo immaginare quanto è stata dura, e quanto è stata sensazionale, la storia sportiva dell’uomo che ieri si è presentato allo Juventus Stadium con un’eleganza, una disinvoltura e una proprietà di argomenti che non molti gli accreditavano. Da quando nel 1999, a 40 anni suonati, decise di lasciare l’impiego in banca per dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione, il suo è stato un percorso a ostacoli. Pensate che dopo la più che incoraggiante esperienza con il Sansovino, portato in tre stagioni dall’Eccellenza alla C2, con tanto di trionfo nella Coppa Italia di Serie D, e prima di approdare all’Empoli, Maurizio Sarri è passato per nove squadre diverse accumulando ben sette fra esoneri (quattro) e dimissioni più o meno traumatiche (tre). Chi avrebbe potuto prevedere un epilogo che definire “lieto fine” è ben più che riduttivo?

A Maurizio Sarri nessuno ha mai regalato niente. Ha dovuto attraversare, e l’ha fatto sempre a testa alta, tutti i luoghi comuni più frequentati del calcio italiano: che chi non è stato un buon giocatore non può essere un buon allenatore; che nelle serie minori è una perdita di tempo proporre un calcio propositivo; che non si può imbottire le teste dei giocatori di nozioni inutili; che in campo bisogna comportarsi diversamente; che prima viene il risultato e poi il gioco. Non si è mai piegato a compromessi. Ha elaborato e rielaborato le sue idee e i suoi principi di gioco senza fermarsi, adattandosi a livelli qualitativi sempre più elevati. Dal famoso appellativo di Mister 33 dei tempi del Sansovino, il numero dei diversi schemi su calcio piazzato che proponeva alla sua squadra, al “bisogna partire dalle caratteristiche dei giocatori che possono fare la differenza” di ieri non c’è né soluzione di continuità né sospetto di opportunismo. C’è solo uno sviluppo di pensiero.

Sarri ha debuttato in Serie A a 55 anni e ha vinto il suo primo trofeo da professionista, un trofeo internazionale per giunta, a 60 anni. Eppure, si era seduto sulla sua prima panchina, Stia, in seconda categoria dilettanti, a 31 anni, cioè iniziando più giovane rispetto a tanti suoi colleghi che alla sua età di oggi si considerano ormai sull’orlo della pensione. Da allora non ha mai smesso di lavorare e di migliorarsi, conservando l’impegno bancario prima, per capire se indossare la tuta e preparare le partite era solo un hobby, e tuffandosi poi, una volta sciolta la riserva, con un impegno H24, come si dice.

Quei maligni perditempo dei tabloid inglesi hanno calcolato che per arrivare dov’è arrivato, e cioè, dopo l’Empoli, al Napoli, al Chelsea e alla Juventus, ha dovuto spendere 29 mila euro all’anno di sole sigarette, 80 al giorno, una ogni dodici minuti. Non è stato calcolato invece quante partite ha visto, dal vivo e in video, in che modo le ha “vivisezionate”, quante sessioni di allenamento ha studiato, delle squadre sue e di quelle avversarie.
Si è fatto da solo Maurizio Sarri. Mai una spintarella, mai una raccomandazione. E rispetto ai self made men di una volta la sua gavetta non è stata lineare. Abbiamo velocemente ricordato quante problematiche abbia dovuto affrontare nelle serie minori, prima di diventare famoso grazie al Napoli e al suo modo di giocare. “Un giorno all’improvviso” è diventato coro da stadio da esportazione proprio perché dal San Paolo si è sparsa in tutto il mondo del pallone la notizia che ci si poteva innamorare di una squadra che giocava come si gioca in Paradiso.
“Un giorno all’improvviso” non era una canzone napoletana: lo è diventata con Sarri. E il titolo dell’inno forse può essere il titolo della carriera di Sarri. Improvvisa, ma non improvvisata. Tanto da diventare il simbolo di un calcio diverso. Diverso rispetto a quello che troppo spesso ci viene propinato negli stadi italiani.

Sì, adesso diranno che la sua presentazione ufficiale nel salone d’onore di Madama Juventus, con quell’abito sartoriale indossato non senza classe, ha cancellato il Sarri ribelle e capopopolo. Vedremo se in campo si rimetterà la tuta. Ma neppure l’esperienza londinese per ora ne ha modificato le abitudini. Non va in vacanza né a Ibiza, come i calciatori, né in spiagge o in Paesi più ricercati. Continua a rifugiarsi fra gli amici di Figline o nella villa di famiglia (della moglie) sopra San Benedetto del Tronto. E’ stato così difficile arrivare fin dov’è arrivato. Altri self made men, in altri campi e ancora più celebri, magari partiti persino da più lontano, per dire da Walt Disney a Jeff Bezos, da Fiorello La Guardia a Leonardo Del Vecchio, citati così alla rinfusa, hanno fatto più in fretta di lui.

Molti hanno visto un notevole contrasto fra lo scegliere la Juventus con entusiasmo e, oltre alla sua napoletanità, il motto bianconero “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. Interpellato al proposito, Sarri ieri si è abbastanza arrampicato sugli specchi. C’è chi dice che a Londra sia un po’ cambiato, da questo punto di vista. Si sarebbe in qualche modo omologato al mainstream pallonaro. Chissà. Certo è che a Napoli veniva applaudito anche se non vinceva, mentre ai tifosi del Chelsea stranamente non è bastata un’Europa League, vinta ma giocata un po’ così, per rimpiangerlo oggi, almeno non più di tanto. L’importante per lui, e perché la sua storia non sia guastata da un brutto epilogo, è che continui, non solo a lavorare, ma allo stesso tempo a divertire e a divertirsi. Liberi gli avversari tutti, non solo il Napoli, naturalmente, di provare a spegnergli il sorriso sulle labbra.
 
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