La scuola che tradisce il sapere

di ​Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 20 Maggio 2018, 22:25
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Negli ultimi venticinque anni la scuola è diventata il terreno sul quale misurare gli effetti di un vasto e profondo smottamento della capacità di assicurare una direzione politica alla società italiana. Dove stiamo andando e dove abbiamo intenzione di andare? Quale è la nostra prospettiva pubblica? Come ci immaginiamo i nostri figli tra dieci, vent’anni, cosa vogliamo che diventino? E soprattutto, dove ce li immaginiamo? Perché in fondo, a pensarci bene, sono queste le domande che danno forma alla scuola. Ebbene, non credo che in Italia ci sia oggi qualcuno in grado, in tutta coscienza, di dare una risposta a questi interrogativi. Perché la risposta impronunciabile ma implicitamente assunta da chi ha retto le sorti del nostro Paese in questo quarto di secolo è una sola: non in Italia. 
La nuova scuola italiana è stata concepita sulla base di un unico criterio. La scuola non serve più a qualificare culturalmente la partecipazione del cittadino all’edificazione della sfera pubblica nazionale. La sua funzione diventa puramente residuale, limitandosi alla segnalazione di giovani intelligenti e motivati da immettere nel circuito della ricerca internazionale, di cui nessun grande centro ha sede in Italia, e nel sistema economico globale. Per il resto il sistema d’istruzione diventa un mero dispositivo burocratico destinato al trattamento di moltitudini sommariamente scolarizzate.
Di qui le infinite sciocchezze sulla didattica digitale, sull’alternanza scuola lavoro, l’enfasi messa sull’insegnamento in lingua straniera di discipline curricolari, impoverite nell’orario e nei contenuti. Un pacchetto sconclusionato di provvedimenti che ha come unico risultato quello di squalificare il percorso formativo dei giovani restituendo i loro destini alle differenze sociali delle famiglie di provenienza. Perché, quando l’istituzione pubblica rinuncia al suo compito di formare i giovani dando loro basi culturali solide, la differenza la fa il potere d’acquisto e, in concreto, la quantità di beni intellettuali posseduti dai loro genitori.
Per capire cosa stia succedendo alla scuola italiana bisognerebbe poter entrare in un liceo classico. Pochi sono oggi i licei che possono dire di aver difeso con successo il loro «privilegio» culturale, di scuole dei buoni studi che, non più destinate alla riproduzione delle élite, erano diventate nel corso del Novecento i luoghi della solida preparazione dei figli del ceto medio nazionale. Nel legame che lungo tutta la seconda metà del secolo scorso il liceo classico italiano aveva stabilito con le famiglie di mediocre fortuna e di media cultura, i cui figli erano destinati alla scuola e all’università, alle carriere professionali, ai ruoli dirigenziali nell’apparato pubblico, lo studio del greco e del latino ha assolto ad una funzione di cui oggi sentiamo potentemente la mancanza: quella di qualificare culturalmente la spina dorsale della società italiana.
Oggi, salvo ripeto poche eccezioni, non è più così. Quasi sempre a scardinare l’impianto della scuola italiana per eccellenza sono i dirigenti scolastici. Armati da decenni di autonomia, trasformati dalla «Buona scuola» in zelanti e servili esecutori delle scelte ministeriali, privi spesso di un’adeguata formazione culturale, i dirigenti arrivano a capo dei loro istituti per via meramente burocratica, e molti di loro senza avere nessuna consapevolezza storica dell’istituzione che sono chiamati a governare. Il loro unico obiettivo è quello di mettersi in mostra dinanzi alle burocrazie del Miur, sperando di averne in cambio briciole di carriera.
Succede così, come accade ad esempio in qualche liceo napoletano, che proliferino nuovi indirizzi senza capo né coda, che anni di lavoro di professori dediti al loro mestiere vengano mandati all’aria con impazienza e fastidio. E così, nuovi insegnamenti sempre più poveri di contenuto, sempre più elementari, sempre più infantili nella loro concezione prendono progressivamente il posto delle vecchie aborrite discipline. Nella loro improvvisata foga di «esecutori» (anche loro), tutto quello che suona come «passatista», storia, filosofia, e soprattutto le letterature antiche, è visto come un impaccio, un freno che trattiene i giovani sul terreno di un sapere ormai non più utile e che fa da intralcio al loro ingresso a vele spiegate sul mercato del lavoro, alla loro capacità di circolazione dentro la nuova economia globale.
Dalla loro, in alcuni casi, questi dirigenti hanno le famiglie, convinte che andando così il mondo c’è poco da obiettare e soprattutto insofferenti di fronte a qualsiasi richiesta «eccessiva» ai danni dei loro pargoli. Se questo ragionamento fosse vero, l’Italia non sarebbe mai uscita dal suo atavico analfabetismo. Se avessero avuto ragione le famiglie, i figli semplicemente non sarebbero mai andati a scuola. Il punto è che di fronte agli orientamenti privatistico carrieristici dei genitori, l’interesse pubblico è venuto totalmente meno. E oggi l’idea che la scuola sia un servizio per i giovani è talmente diffusa che nessuno pensa possa costituire l’oggetto di una riflessione critica.
Due questioni restano però aperte. Una scuola che si rassegni alle ragioni del privatismo finisce inevitabilmente per affidare la selezioni dei talenti e delle ambizioni al mercato. E degli altri, di tutti gli altri, che non avendo l’occasione di incontrare pensieri, libri, cultura restano oscuri a se stessi, che ne facciamo? E poi, uno Stato che affida la selezione delle élite pubbliche ai circuiti denazionalizzati dell’economia, cosa diventa?
<TB>Chissà se di questo si è discusso al tavolo del contratto di governo. Personalmente ne dubito.
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