La vergogna delle confische lumaca ​per chi inquina

di Marilicia Salvia
Venerdì 19 Novembre 2021, 00:00
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Non è stato fatto abbastanza, ha scritto il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese alla commissione parlamentare ecomafie: un giudizio lapidario e severo che tuttavia non rende esattamente l’idea del vulnus in atto, perchè in realtà, finora, riguardo i favolosi beni dei fratelli inquinatori Cuono, Giovanni e Salvatore Pellini non è stato fatto niente. Anzi: a dispetto della condanna per «disastro ambientale immane», i tre continuano a vivere tranquillamente nelle loro lussuose ville, avendo scontato - con tre di carcere e quattro depennati dall’indulto - i sette anni in totale cui la giustizia italiana li aveva condannati.

Quelle ville, un agriturismo, un paio di fabbriche e più di cento appartamenti, auto di lusso e persino tre elicotteri, controvalore in euro duecentoventidue milioni, autentico tesoro frutto esclusivamente di attività illecite, restano da anni in un limbo, e non consola l’idea che una volta tanto non c’entra l’inerzia della mano pubblica, visto che sulla confisca pende un ricorso presentato dagli stessi titolari. Si deciderà a dicembre e nel frattempo la gestione è affidata a due amministratori nominati dal Tribunale, ma non è questo il punto, come sottolinea il ministro, che ha voluto richiamare l’attenzione «sull’opportunità di avviare interlocuzioni con l’Autorità giudiziaria finalizzate a individuare un percorso condiviso che possa rafforzare l’azione delle istituzioni a salvaguardia della legalità e per la protezione dell’ambiente».

Forse non tutti, ma alcuni di quei beni sono abbandonati, chusi, lasciati a deperirsi, come può notare chiunque si trovi a passare da quelle parti. Edifici e terreni in attesa di padroni, esposti anche alla mercè dei vandali, che quelli non mancano mai. E che distruggendo, imbrattando, incendiando - come è stato fatto due volte nell’agriturismo extralusso che rappresentava il fiore all’occhiello dell’attività «pulita» degli imprenditori acerrani - non fanno un dispetto ai vecchi proprietari, non si vendicano contro l’indicibile male da loro compiuto quando si arricchivano avvelenando terre e futuro, ma arrecano danno allo Stato, cioè a tutti noi. È su questo che il ministro Lamorgese insiste, quando scrive che «manca un coordinamento tra le istituzioni in grado di tutelare i beni sottratti ai condannati per il disastro ambientale di Acerra»: non si può rinviare a tempi migliori la gestione corretta di quel patrimonio, non si può fare, perchè quegli edifici oggi inservibili perché devastati dai vandali, ma anche i 150 e più appartamenti riconducibili alla proprietà dei Pellini in mezza Italia, e tutti i beni di lusso che la stragrande maggioranza degli italiani può soltanto desiderare e che i tre fratelli avevano comprato invece con il denaro che arriva facile quando si traffica in affari loschi come lo smaltimento clandestino dei rifiuti, tutti quei beni sottratti a tre uomini, i primi che lo Stato ha condannato per «disastro ambientale immane» con sentenze passate fino al vaglio della Cassazione, non sono importanti soltanto per il loro valore economico: sono soprattutto cose, oggetti, luoghi che hanno un valore altamente simbolico.

Il che inevitabilmente rende altamente simbolica la stessa scelta di proteggerli o abbandonarli al loro destino. 

Non si è fatto niente, ad Acerra, o almeno non abbastanza come dice generosamente il ministro, e ancora una volta ci si ritrova a dubitare della efficacia di una legge, quella che impone il riutilizzo a fini sociali dei beni sottratti alla criminalità, tradita tanto nello spirito quanto nella sostanza. E invece situazioni come questa sono l’occasione per ribadirne l’utilità, anzi la necessità, di fronte al rischio che quella perdita di memoria collettiva inevitabile con il passare del tempo e delle generazioni finisca per cambiare senso anche alle azioni più infami.

La memoria conta, i simboli contano. Per Acerra, città letteralmente piegata negli ultimi decenni dallo scempio dei roghi tossici, dall’orrore dei veleni arrivati dal Nord a camionate e sepolti, a cuor leggero e portafogli gonfio, sotto ettari ed ettari di campagne rovinate per sempre, sarebbe forse una magra consolazione vedere le luci di certe residenze riaccendersi per ospitare iniziative di solidarietà, o incontri incentrati sulla legalità: ma sarebbe comunque meglio di niente, sarebbe un segnale, il mattone da cui ripartire. Vedere destinati a finanziare opere e attività sociali i canoni d’affitto dei tanti immobili con cui i loro insospettabili concittadini riciclavano denaro potrebbe costituire un risarcimento, per quanto minimo, alla quantità di dolore e sofferenza inflitta con cinismo, con spaventosa costanza, agli abitanti di questo pezzo di provincia martoriata. 

Non è la legge sul riuso dei beni in discussione, il fallimento, semmai, è della filiera istituzionale, chiamata a muoversi, a trovare risposte adeguate e veloci, e invece puntualmente impantanata nell’immobilismo. In questo senso il richiamo del ministro dell’Interno è esemplare. Non agire, non scegliere, significa non cambiare le cose. È un richiamo che tocca tutti, perchè non c’è possibilità di riscatto finchè la risposta non è corale. 
 

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