«Che fine ha fatto il tesoro del barone Quintieri?»

di Maria Chiara Aulisio
Martedì 27 Gennaio 2015, 00:09 - Ultimo agg. 00:18
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Lo definirono «l’assessore del tesoro», Antonio Franco Girfatti, vicepresidente della Regione Campania con Antonio Rastrelli, considerato da tutti la mente economica della sua giunta, nonché assessore al Bilancio e, all’epoca dei fatti, anche presidente della Camera di Commercio di Caserta. Perché «assessore al tesoro»? La risposta arriva subito: se non ci fosse stato lui, probabilmente, quel patrimonio sarebbe ancora nascosto nel caveau di una banca romana insieme con tutta una serie di beni e di oggetti molto, ma molto preziosi. «Voglio sapere che fine ha fatto quel ben di Dio, dopo quasi vent’anni qualcuno dovrà dirmi chi lo gestisce e soprattutto come. Sono un cittadino, è un mio diritto».



Ma di che tesoro parla, Girfatti?



«Di quello del barone Giovanni Paolo Quintieri».



E chi è?



«Un ricco nobile calabrese che alla sua morte, nell’agosto del 1970, lasciò tutto il suo sterminato patrimonio, mobiliare e immobiliare, all’istituto per ciechi Colosimo dove la madre aveva sempre prestato la sua opera di volontaria e benefattrice».



Fin qui tutto regolare.



«Certo. Fino a quando la sua eredità non è finita nelle mani della Regione Campania».



Che c’entra la Regione?



«C’entra eccome. Con la legge 641/78 per la soppressione degli enti inutili, il Colosimo, e tutti i suoi beni, passò sotto l’egida della Regione».



Quindi?



«Qualcuno se ne sarebbe dovuto occupare, qualcuno avrebbe dovuto sapere, e gestire, quello che aveva lasciato il barone».



Invece?



«Macché. Nessuno sapeva niente, almeno apparentemente, almeno fino a quando non l’ho scoperto io».



Ma che cosa aveva lasciato il barone?



«Di tutto».



Che cosa intende per «di tutto»?



«Credetemi, non so nemmeno da dove cominciare»



Ci provi.



«Un castello medievale, fra i più grandi e meglio conservati dell’Italia centrale, tenute agricole per centinaia e centinaia di ettari, capi di bestiame, possedimenti nelle Marche, a Montecoriolano, in Calabria e a Roma».



Anche a Roma?



«Un intero palazzo ai Parioli, 52 appartamenti, in via Panama, con vista su Villa Borghese».



Tutto ai ciechi?



«Tutto. Ma mica è finita».



Che altro c’era?



«Arredi, suppellettili, cristalli, lampadari di Murano, tappeti persiani, argento, tanto argento: posate, coppe, vassoi, candelabri, oggetti di ogni tipo che erano custoditi nelle sue tante case. E poi i quadri».



Pure i quadri?



«Tanti. Il barone era un grande appassionato d’arte, comprava opere in giro per il mondo».



Di valore, naturalmente.



«E certo».



Ricorda qualche autore?



«Sì, c’erano quadri di alcuni fra i più importanti pittori del Seicento e del Settecento. Andrea Vaccaro, Giacinto Diano, Francesco De Mura, Gaetano Gandolfi, Rosa da Tivoli, Pacecco De Rosa, Giovanni Francesco Barbieri, Jusepe de Ribera. E Rembrandt».



Rembrandt? Girfatti è sicuro?



«Sicurissimo. Lo feci inventariare proprio io. È scritto nero su bianco. L’ho visto con i miei occhi».



Che cosa rappresentava?



«"Ritratto di gentiluomo a mezzo busto", probabilmente un autoritratto. È stato dipinto dal celebre pittore olandese nel 1635».



E adesso dov’è?



«Bella domanda. È proprio quello che vorrei sapere anche io. Che fine ha fatto quel Rembrandt, dove è custodito? Ancora nel caveau di una banca? Oppure altrove. E se pure dovesse essere ancora lì, vi sembra possibile che un’opera d’arte di quel valore, non solo economico ma artistico, sia abbandonata in una camera blindata?».



Impossibile.



«In ogni caso vorrei saperlo».



Ha mai chiesto a qualcuno?



«Certo».



A chi?



«Ho tentato invano di parlare con Stefano Caldoro, non mi ha mai ricevuto. Ho incontrato più volte Caterina Miraglia alla quale ho chiesto di avere qualche notizia a riguardo, ma anche lei non si è mai fatta sentire».



Se il barone l’avesse saputo...



«Non lo avrebbe mai immaginato, il povero barone, dove sarebbe andato a finire il suo patrimonio. Anche perché il testamento parlava chiaro e stabiliva che il lascito sarebbe dovuto servire a mantenere il Colosimo e i suoi ospiti non vedenti. Invece, a mia memoria, l’istituto era sempre senza fondi».



Ha detto che a scoprire tutto questo è stato lei?



«Proprio io. Nel 1996, quando ero vicepresidente della Regione Campania con Antonio Rastrelli. Feci fare un inventario con 765 voci».



Ma come ha fatto ad arrivare all’eredità del barone?



«Avevo l’abitudine di ficcare il naso nei conti per cercare di tagliare le spese il più possibile».



Quindi?



«Guardando i pagamenti che facevamo ogni mese mi saltò all’occhio che la Regione pagava da tempo due cassette di sicurezza in una banca napoletana e una enorme camera blindata in una banca romana. Che cosa ci fosse dentro sembrava un mistero».



In che senso?



«Nessuno sapeva niente, provai a chiedere a tutti».



Anche al presidente?



«Anche a lui».



E allora?



«L’unica soluzione era andare, aprire e vedere».



Così fece.



«Certo, ma non da solo».



Con chi?



«Due notai, alcuni dirigenti regionali e un giornalista. Non sapevo che cosa avrei trovato lì dentro, avevo bisogno che qualcuno testimoniasse l’apertura delle cassette e della stanza blindata».



E bene fece.



«Benissimo. Quando aprimmo quella porta non potevamo credere ai nostri occhi. Un patrimonio enorme. E non sapevamo che in realtà si trattava solo di una parte perché il resto dovevamo ancora scoprirlo».



Però il Rembrandt c’era.



«Quello sì. Fu uno dei primi oggetti che feci inventariare. Un quadro straordinario dal valore inestimabile».



Ma che fine avrà fatto?



«Adesso voglio saperlo e qualcuno dovrà dirmelo. L’ho trovato la prima volta, lo troverò anche la seconda».