Le proteste che vanno contro il Paese

di Paolo Pombeni
Martedì 7 Dicembre 2021, 23:44 - Ultimo agg. 8 Dicembre, 07:00
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Che un “quotidiano comunista” titoli la notizia dello sciopero generale indetto da Cgil e Uil “Finalmente” ci illumina sul permanere delle vecchie categorie politiche anche in questo nuovo millennio che una pandemia dovrebbe aver costretto a capire che siamo in un mondo nuovo e piuttosto sconosciuto.

Non lo si dice per far polemica, ma per constatare una amara realtà che ci saremmo volentieri risparmiati.

Davvero siamo rimasti alla frusta ideologia che il sindacato vive e serve solo se proclama cosiddette azioni di lotta (un tempo si aggiungeva: di classe) che devono culminare nel mitico sciopero generale? La Cisl non ha aderito, ci auguriamo memore del fatto che era sorta proprio scindendosi dalla Cgil per il rifiuto del ricorso allo “sciopero politico”.

Perché cosa rappresenta questa fermata del Paese se non una scelta squisitamente “politica”, in nome del pregiudizio che il governo è per sua natura incline a non tener conto dei lavoratori, anche se sono mesi che si è occupato di salvaguardare l’economia del Paese, di garantire il più possibile i salari e i sussidi? 

La retorica ufficiale è che il governo, ovvero leggi Draghi, non ha ritenuto che la rappresentanza del Paese fosse interamente e principalmente nelle mani dei vertici sindacali, che avrebbero una specie di ius primae noctis per il varo di qualunque misura economica.

È vero che i partiti avendo esasperato il loro proprio versante para sindacale, quello a favore di lobby, clientele e gruppi di interesse, hanno fatto molto per marginalizzare e umiliare di fatto il ruolo dei sindacati, spingendoli, anzi quasi costringendoli a dimostrare che anche loro sono in grado di imporre una presenza e di piantare le loro bandierine.

Non va bene, perché così tutti, partiti e sindacati, frammentano la rappresentanza, istigano alla rincorsa alle molteplici tutele di parte e di bandiera, cioè fanno tutto quello che rallenta, se non proprio impedisce la formazione di un consenso politico diffuso. Naturalmente ci si sarà accorti che ora il termine “consenso” ha assunto un significato quasi negativo: non vuol più dire concordia su visioni generali e su grandi obiettivi pur nella dialettica critica delle posizioni, ma asservimento al potere, repressione della libertà d’opinione, trionfo del cosiddetto pensiero unico.

Sono i frammenti di una vecchia cultura politica che rimbalza sulla scena. Continuamente ne vediamo le tracce. Forse che l’ossessione del Pd per il “campo largo” non è figlia della antica cultura del Pci che doveva porsi come il collettore e il regista di tutto ciò che di progressista esisteva, per cui alla fine chi non accettava la sua attrazione, progressista non poteva essere? Ai (bei?) tempi andati almeno c’era il realismo di chiamare queste larghe alleanze “compromesso storico”, adesso eravamo arrivati ad incoronare quel genere di accordi come perni del progressismo fino a rischiare il collasso del sistema per tenerli in piedi a forza.

Del resto a cosa risponde l’offerta da parte del Pd del collegio di Roma 1 al traballante leader di un traballante M5S se non a questa vecchia visione dei blocchi politici? Poi l’operazione può abortire perché l’alleato non ha il carisma per reggere la parte che gli si vorrebbe affidare dall’esterno, finendo per essere dannosa a chi l’ha proposta e a chi non ha capito che non poteva rifiutarla.

Resta il fatto che a sinistra, almeno a livello di gruppi dirigenti, sembra non ci si liberi dall’ottica tutta politicante del lavorare solo col doppio pallottoliere: da una parte quello che conta i voti in parlamento, dall’altra quello che pesa giorno per giorno i sondaggi.

Peraltro il clima è generale. Forse che il centrodestra ragiona con categorie innovative? Basta guardare alla vicenda del tentativo di Draghi di promuovere un simbolica redistribuzione dei pesi fiscali toccando un poco la fascia più alta dei redditi e subito si vedrà il solito riflesso di Pavlov: non si mettono le mani nelle tasche degli italiani, le tasse si abbassano e non si alzano e avanti di questo passo. Su questo si arriva facilmente anche qui al blocco politico senza grandi differenze fra estreme e centristi moderati.

Così non funziona, perché più si fa crescere la balcanizzazione della conflittualità più diventerà arduo ricostruire un tessuto di solidarietà nazionale che è essenziale non solo per il varo effettivo del Pnrr, che si sta già scontrando con tutti gli ostacoli accumulati in decenni di declino delle nostre efficienze, ma per fronteggiare un futuro su cui potrebbero pesare nubi minacciose: dall’ancora nebuloso evolversi della pandemia, al minacciato ritorno dell’inflazione, dalle tensioni internazionali crescenti, al possibile complicarsi della situazione nell’Unione Europea.

La preoccupazione per la decisione improvvida di Cgil e Uil di gettare il peso di due grandi sindacati che sono confederazioni larghe di componenti in questo revival delle rappresentazioni politiche del secolo passato sta proprio in questo, nel traballare di agenzie sociali che nei loro momenti forti avevano saputo anteporre l’interesse generale del Paese allo sbandieramento di piazza delle ideologie di parte.

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