Le sette piaghe del Mezzogiorno: tra tasse elevate e servizi mediocri

Le sette piaghe del Mezzogiorno: tra tasse elevate e servizi mediocri
di ​Marco Esposito
Giovedì 6 Agosto 2015, 22:41 - Ultimo agg. 22:45
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La luce si spegne sei volte più spesso. Le università subiscono un taglio doppio. I servizi ferroviari di qualità sono un decimo. Per asili nido e istruzione i bambini del Sud valgono un terzo degli altri. La sanità cura meno chi si ammala e muore prima. Le tasse sono più salate. Gli investimenti, anche pubblici, sono in calo. Sette piaghe affliggono il Sud e se - con il calo della natalità - nel Mezzogiorno è diventato improbabile persino nascere, figurarsi studiare e lavorare. Però, al contrario delle calamità bibliche, siamo di fronte a scelte errate ma umane, che si possono correggere.



Fisco più caro, tagli agli investimenti, minori servizi e assenza d’idee sembrano essere diventate caratteristiche peculiari del Sud Italia, come se nella storia fosse sempre andata così. Ma c’è stato un tempo ben diverso: a lungo (fino al 1996) il Sud ha beneficiato di una fiscalità di vantaggio; per decenni (fino al 2011) ha goduto di una ripartizione di risorse pubbliche legate al numero di abitanti e non alla ricchezza degli stessi; inoltre nel Mezzogiorno si sono sperimentate politiche di sviluppo anche coraggiose.



Politiche di sviluppo magari criticabili (dagli investimenti dell’Iri degli anni Settanta ai patti territoriali degli anni Novanta) ma di sicuro indicative di un impegno collettivo, pubblico.

Carenza di equità (su fisco, sanità, fabbisogni standard, università...) e mancanza di strategia (su infrastrutture e trasporti in primo luogo) sono un fenomeno nuovo, che si è accentuato negli ultimi anni e che ha un peso non secondario nell'aumento del divario registrato dalla Svimez, sommandosi ovviamente ai mali storici mai risolti e a caratteristiche negative italiane come la lentezza della giustizia, la vischiosità della burocrazia e la flessione demografica. Oltre che la presenza di mafie e corruzione, fenomeni però largamente diffusi anche da Roma in su.



Le sette piaghe aggiuntive per il Mezzogiorno non solo deprimono il morale e gli indici economici del Mezzogiorno, ma alimentano flussi migratori talora temporanei, legati a specifici servizi (sanità in testa), più spesso permanenti, come la migrazione universitaria e occupazionale. Con il risultato di avere un Sud sempre meno utile per se stesso e per il Paese. Al punto di arrivare allo spaventoso indice di soli 1,3 figli per coppia, come sintesi estrema e drammatica di sfiducia nel futuro e in se stessi.

Non è un problema di forma, ma di sostanza. Il Sud è diventato una grande area con fiscalità di svantaggio, dove a maggiore pressione fiscale corrisponde una precaria erogazione di servizi: nel 2015 una nuova impresa, una startup, è esente dall’Irap in Lombardia mentre paga il 4,82% in molte regioni del Sud (con un picco del 4,97% in Campania).



Ciò accade non perché il termine «Mezzogiorno» sia stato depennato dalla Costituzione nel 2001, ma perché lo Stato ha continuato a chiedere a cittadini e imprese le stesse tasse di un tempo, però per risparmiare non ha più girato risorse a sufficienza agli enti locali, chiedendo a Regioni e Comuni di arrangiarsi aumentando le imposte locali. Inoltre non sono mai stati fissati, dal governo, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in tutto il territorio nazionale per il timore di doverli finanziare e per la medesima ragione non è mai partito il fondo perequativo né per le Regioni né per i Comuni. Lo Stato, come ha raccontato nei giorni scorsi la Corte dei Conti, dal 2011 ha ridotto in modo intenso i finanziamenti centrali dando maggiore autonomia fiscale a Regioni e Comuni, con effetti negativi intanto per i contribuenti tutti (perché non si è abbassata la pressione fiscale statale) e poi in modo più accentuato nel Mezzogiorno, dove l’accresciuta richiesta di tributi locali nei bilancio di Regioni e Comuni non compensa se non parzialmente i tagli nazionali con effetti sui servizi ben visibili, per esempio, nel trasporto locale. Inoltre, nell’attuare il federalismo fiscale, non solo è venuta meno la parte perequativa, ma sono state effettuate scelte tecniche incomprensibili, che danneggiano sistematicamente le comunità meridionali.



Il caso più clamoroso è nell’attribuzione dei fabbisogni standard comunali per asili nido e istruzione. Soltanto per queste due voci, infatti, invece di calcolare il fabbisogno comune per comune della popolazione, si è considerato il livello di servizi erogato nel 2010 con il paradosso che laddove il livello è nullo o insufficiente, si è considerato quel livello minimo o zero come il reale fabbisogno. In altre parole, se una città come Catanzaro non aveva asili nido nel 2010, si è sostenuto che non ne ha bisogno neppure oggi, riducendo il fabbisogno complessivo di quel comune. A Napoli per asili nido e istruzione è stato assegnato un fabbisogno di 72 euro per abitante, contro i 187 di Roma e i 237 di Milano. In pratica è come dire che i bambini di Napoli valgono un terzo degli altri. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, non si sta parlando della distribuzione di risorse per asili nido o per l’istruzione, bensì del confronto tra quanto un comune riceve (tra fondi statali e risorse proprie) e quanto dovrebbe avere considerando il corretto fabbisogno standard. Ebbene, se si sottostima al Sud il fabbisogno di asili nido e istruzione, il risultato sarà un maggior numero di comuni meridionali la cui spesa risulta eccessiva rispetto ai fabbisogni, come può verificarsi sul sito www.opencivitas.it, nel quale i comuni con fabbisogni bassi rispetto alla spesa hanno il territorio colorato di rosso, contro il verde di quelli che operano grazie a meno risorse rispetto al fabbisogno standard. Il risultato è che si tagli di più a chi ha già meno.



In Sanità il riparto del fondo tra le Regioni dal 2013 è effettuato in base alla “formula Calderoli”, che tiene conto di un solo parametro: la popolazione pesata per età. Nessuno può negare che l’età sia un parametro utile per tarare le esigenze sanitarie, ma di sicuro non è il solo, altrimenti si arriva al paradosso di togliere risorse per cure e prevenzioni ai territori con bassa speranza di vita o con specificità negative come per Taranto o la Terra dei fuochi. Non a caso nella legge di Stabilità del 2015 (comma 601) si indica il superamento della formula Calderoli a favore di un principio con cinque parametri, previsto da una legge del 1996, mai attuata (articolo 1 comma 34 legge 662/1996). Eppure tale innovazione, per quanto equa, non è stata ancora realizzata con il risultato che si rischia di effettuare anche il riparto 2015 e quello 2016 con la formula Calderoli, con un danno di 60-70 euro per abitante in territori giovani come la Campania.

Il principio di equità è venuto meno persino nel settore universitario, un campo nel quale il prestigio degli atenei del Sud era indiscusso: si pensi a quanti meridionali hanno fatto carriera fino alla Corte Costituzionale dopo una laurea in Giurisprudenza alla Federico II. Una quota crescente del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) è distribuito in base a indici valutativi, i quali dovrebbero misurare la qualità della didattica e della ricerca. Tuttavia, anche per difficoltà a trovare parametri oggettivi, nei fatti tali misurazioni non fanno che certificare il dualismo territoriale, riproducendolo e amplificandolo, con un taglio del Fondo «Ffo» che dal 2008 supera il 10% al Sud mentre è sotto il 5% al Centronord. Come si scelgono parametri truccati? Per esempio considerando il numero di arrivi dall’estero negli atenei italiani di studenti Erasmus, il quale è in larga misura legato alla percezione che hanno i ragazzi europei della vivibilità delle città italiane, oltre che alla possibilità per gli atenei di erogare servizi di accoglienza. Il risultato è che i tagli al sistema universitario nazionale sono massimi al Sud e contenuti al Nord, con effetti sul turnover, per il quale è in vigore un tetto del 50% medio che sovente si traduce in un 20% al Sud e sfiora o supera il 100% in molti atenei del Nord.



Anche la luce, al Sud, è di qualità inferiore con effetti negativi soprattutto per le imprese. L’Autorità per l’energia calcola la quota di clienti di media tensione (quindi aziende) «peggio serviti», cioè che subisce interruzioni superiori agli standard di qualità fissati. Ebbene: a fronte di un 4% di clienti trattati male al Centronord si registra un 23% al Sud: sei volte di più. Chiedere di fare impresa in tali condizioni, ovvero al buio, equivale a invocare un atto di coraggio.



Ma il dato più clamoroso, tra tutti, è l’assenza di una visione dell’Italia che contempli il Mezzogiorno. Si prenda lo storico raddoppio del Canale di Suez che da ieri offre una straordinaria opportunità a tutto il Mediterraneo. La centralità della penisola italiana è nei fatti e Gioia Tauro è il porto con la migliore collocazione geografica, unico scalo italiano nella top 50 mondiale del trasporto container con i dati del 2014. Ebbene: sia nel Pon, Piano operativo nazionale, relativo alle Infrastrutture e Reti, sia nell’Allegato infrastrutture al Def, Gioia Tauro è descritto come uno scalo in crisi e le scelte strategiche sono a favore dei porti del Nord Tirreno e del Nord Adriatico, da collegare via ferrovia al resto d’Europa, mentre oggi i servizi ferroviari che si spingono in Calabria sono un decimo di quelli nel Centronord. In Spagna, i porti sui quali si scommette sono Agesiras e Valencia e non Barcellona, ovvero quelli del Sud e non del Nord. Per una ragione molto semplice: le supernavi che entreranno nel Mediterraneo da Suez per uscirne a Gibilterra (o viceversa) si spostano lungo il 35° parallelo, quello che passa per la Sicilia, non la Liguria o il Veneto. L’Italia invece di attrezzare i propri porti geograficamente avvantaggiati al trasbordo dalle navi di grande dimensione ai treni merci di nuovo standard, ovvero lunghi 700 metri, ha reso esplicito il suo piano, che ignora le potenzialità del Meridione: le richieste di finanziamenti all’Unione europea in occasione del primo bando Cef (Connecting Europe Facility) contengono esclusivamente interventi nel Nord Italia da realizzare entro il 2020, con il clamoroso rapporto di 7 miliardi al Centronord e 0 al Sud. Quanto ai porti, il fondale di Savona con i dragaggi sarà portato a 20 metri di profondità, diventando il più accogliente d’Italia sebbene decentrato, mentre Gioia Tauro e Taranto vengono considerati - nell’allegato infrastrutture al Def 2015, scali destinati alla contrazione delle attività. Eppure con Gioia Tauro collegato alla rete di trasporti ferroviaria europea, cioè con gli adeguamenti in grado di far transitare i treni lunghi 700 metri e con una connessione con gli interporti di Marcianise e Nola, l’Italia potrebbe avere un vantaggio competitivo straordinario rispetto ai principali porti concorrenti nel Mediterraneo. Port Said (in Egitto) e Algeciras (in Spagna) sono sulla rotta Suez-Gibilterra ma il primo è in Africa e, il secondo, mille chilometri più lontano dalla Germania rispetto alla Calabria, che quindi potrebbe spiazzare entrambi i concorrenti. Una scelta sbagliata, quella di abbandonare Gioia Tauro, ma che si è in tempo a correggere.

Le sette piaghe che deve affrontare il Mezzogiorno, infatti, hanno un aspetto positivo: al contrario delle calamità bibliche, siamo di fronte a scelte umane, che possono essere cambiate con un tratto di penna a Palazzo Chigi o a Montecitorio. La formula Calderoli nella sanità, il trucco sugli asili nido, i tagli alle università, le strategie portuali che trascurano il Sud non sono incise nella pietra. Sono un accidente reversibile.