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Le spine di Manfredi e l’illusione di un campo largo che non esiste più

di Adolfo Scotto di Luzio
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 4 Dicembre 2022, 00:00
4 Minuti di Lettura

È passato poco più di un anno e sembra un secolo. Era il giugno del 2021 quando Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sancivano in una pizzeria il patto politico che avrebbe portato, di lì a qualche mese, Gaetano Manfredi a Palazzo San Giacomo. Il famoso campo largo teorizzato a Roma, si realizzò a Napoli e sembrava dovesse rappresentare la formula vincente per dare alla sinistra la maggioranza politica nel Paese. Sappiamo come sono andate poi le cose. 

Ora a questo campo largo, Manfredi sembra restare fedele. Sembra ancora persuaso della bontà della formula politica e lo scorso venerdì, in un dibattito pubblico con Stefano Fassina, in occasione della presentazione del suo libro, ha ragionato intorno alla formula proposta dall’autore de “Il mestiere della sinistra”: la sinistra è chi la fa. Insieme a lui c’era anche l’ex presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico.

Rivendicando l’esperienza che lo ha portato sulla sedia di sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi ha poi ripetuto quello che è un vero e proprio topos del discorso della sinistra italiana (di solito dopo una sonora batosta): uniti si vince. E lo dimostrerebbe proprio il “caso Napoli”.

Ora è evidente che la prospettiva della sinistra sostenuta da Fassina per cui la sinistra consisterebbe non più in una formazione storica, ma nell’agire di sinistra quale che ne sia il soggetto, e quella del caso Napoli, l’alleanza elettorale di due partiti, il Pd e il M5s, rappresentano ipotesi profondamente differenti e in contraddizione tra loro. Il propugnatore del caso Napoli è lo stesso Manfredi che, nel resoconto che ne ha fatto ieri il Mattino, sostiene inutile ogni pronunciamento sullo stato dei partiti, per il semplice fatto che i partiti non ci sono e dunque non si saprebbe di cosa parlare. Se la “sciabolata” come l’ha definita questo giornale, tanto più sorprendente perché inusitata per i modi di solito pacati e sobri del professore universitario, affonda nella realtà dei fatti, mi pare evidente dover concludere che il caso Napoli o la pretesa della città laboratorio politico della sinistra costituisca una prospettiva del tutto infondata o quanto meno irrealistica. 

Che sarebbe stato, infatti, questo presunto laboratorio se non l’alleanza di due partiti che in città semplicemente non esistono e che a livello nazionale ormai navigano sempre più distanti in direzioni opposte?
E d’altra parte, se la sinistra trova casa tra chi la sinistra la fa, un’ affermazione del genere appare più l’invito ad un processo costituente o, in una versione più realistica, alla confluenza di una parte di quelli che la sinistra la fanno nel corpo accogliente (ma fino a che punto?) del partito di Giuseppe Conte, che una prova fattuale a sostegno della candidatura di Napoli a svolgere un qualche ruolo nella riorganizzazione dei ranghi dell’esercito progressista sconfitto il 25 settembre scorso.

Insomma, se mai Napoli è stata il luogo di qualcosa a sinistra, oggi non sembra proprio stare più da nessuna parte. Ma c’è poi un altro aspetto da considerare. Nella stessa giornata di venerdì, in uno dei suoi incontri pubblici, Manfredi ha annunciato che sta pensando di non correre per un secondo mandato. Che senso ha, ad un anno dal suo insediamento a Palazzo San Giacomo, che l’attuale sindaco, in un momento di evidente sfiducia sul proprio ruolo, annunci di non sapere se si ricandiderà? Anche Giuliano Pisapia a suo tempo disse di non essere interessato ad un secondo mandato a sindaco di Milano, ma era il marzo del 2015 e le elezioni si sarebbero tenute nel giugno dell’anno dopo. A quel punto cominciò l’affannosa ricerca di un candidato a sinistra che portò all’elezione di Giuseppe Sala, attualmente in carica. Ma la sindacatura di Manfredi è appena cominciata e manca un bel po’ all’inizio dei giochi. A chi interessa sapere ora che Manfredi sta pensando che forse non vale la pena puntare ad un secondo mandato?

Quali che ne siano le ragioni, viene da chiedersi una volta di più quale sia il senso del laboratorio napoletano. E qui non tanto dal punto di vista del metodo politico (uniti si vince), ma della qualità politica impressa dalla tanto vantata unità al lavoro amministrativo attuale. Insomma, se non si capisce in che modo il laboratorio napoletano possa favorire un processo di unificazione a sinistra, mancando appunto i soggetti di tanta unità, viene da chiedersi perché stare insieme se poi gli effetti sono di così palese sfiducia?
Il caso Napoli se è tale assomiglia più ad una sindrome che ad una indicazione di tattica politica.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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