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Se il deficit consente al Paese di ripartire

di Paolo Balduzzi
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 11 Novembre 2022, 00:00 - Ultimo agg. : 06:00
4 Minuti di Lettura

Prende finalmente forma la legge di Bilancio per il prossimo triennio. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha passato l’intera mattinata di un paio di giorni fa di fronte alle Commissioni speciali riunite di Camera e Senato, per illustrare le modifiche che il governo Meloni ha introdotto alla Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef), precedentemente predisposta dal governo Draghi.

Le modifiche quantitative hanno ottenuto il via libera sia delle Commissioni speciali sia dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb). Ora, però, dovranno tramutarsi in azioni concrete all’interno dell’imminente manovra di Bilancio. Si tratta di passaggi importanti, per diversi motivi. Il primo è squisitamente politico. Quella del triennio 2023-2025 sarà infatti la prima legge di Bilancio del governo Meloni, nato da nemmeno tre settimane. Sarà interessante vedere quante delle promesse elettorali verranno mantenute e quante rinviate. Quanto ci sarà, per esempio, di flat tax e quanto di cosiddetta “tregua fiscale”? O quale sarà il destino di superbonus edilizio e reddito di cittadinanza, per citare due tra le misure più controverse degli ultimi anni? 

Intanto, la buona notizia è che proprio la Nadef, grazie al lavoro della “Commissione per la redazione della relazione sull’economia non osservata e l’evasione fiscale”, certifica che nel 2019 l’evasione si è ridotta, in particolare per quanto riguarda l’Iva. Un risultato che dovrebbe portare a rafforzare la strategia del governo in questa direzione e che sicuramente contribuisce a instaurare un clima di fiducia reciproca tra contribuenti e fisco. Il secondo motivo è invece economico. Diverse sono le grandezze del bilancio pubblico da tenere d’occhio. La pressione fiscale, per esempio: le tasse aumenteranno o diminuiranno, in totale? E, se cambieranno, chi ne sosterrà l’onere maggiore o, al contrario, chi beneficerà dello sconto più elevato? Come finirà il confronto sulle pensioni? A inizio legislatura, Fratelli d’Italia sembrava voler sostenere una posizione coraggiosa, che abbiamo già avuto modo di apprezzare da queste colonne, e che prevede di estendere a tutti i lavoratori il metodo contributivo al 100%. Più recentemente, tuttavia, sembra riemergere la posizione di orientamento leghista, che confermerebbe misure molto specifiche (e quindi inique) e costose.

Soprattutto, però, l’attenzione di molti, in Italia ma anche all’estero, riguarda l’attitudine del nuovo governo verso deficit e debito. Se durante la crisi del 2009-2013 l’imperativo per molti era quello dell’austerità, vale dire del risanamento del bilancio attraverso lotta al deficit, tagli della spesa e aumenti delle imposte, in questi ultimi anni abbiamo imparato a sopportare maggiormente l’eventualità di deficit elevati, nonostante gli effetti negativi che questi continuano ad avere sull’economia: aumento della spesa per interessi (e quindi inferiori risorse per altri interventi), aumento del debito pubblico (e quindi del rischio di investire nel nostro paese), peggioramento del clima di fiducia degli operatori economici, con conseguente rallentamento della crescita. Tuttavia, quando si tratta di salvare vite e di tenere compatto il paese, è corretto ricorrere a qualunque mezzo, senza andare troppo per il sottile con la teoria economica. Lo stesso Mario Draghi, di certo persona rigorosa dal punto di vista dei conti pubblici, ha più volte spiegato come non tutto il debito sia necessariamente cattivo. Il debito è utile, è positivo, è «buono», per citare l’ex presidente del Consiglio, quando serve a finanziare investimenti produttivi e crescita. La Nadef integrata dal governo Meloni registra un deficit del 4,5%. Come giudicare questo numero? Il modo migliore per farlo è quello di metterlo in prospettiva, sia rispetto al passato sia rispetto al futuro. Questo deficit, che risente dei nuovi interventi del governo, è superiore a quello previsto dal governo precedente (3,4%) ma è comunque inferiore ai deficit degli anni 2020 (9,5%), 2021 (7,2%) e 2022 (5,6%). Non solo: lo scostamento, in termini assoluti, sarà di circa 20 miliardi di euro. Una cifra alta, impegnativa, ma non impossibile da racimolare. 

Rispetto al futuro, bisogna ricordare che il 2023 sarà probabilmente l’ultimo anno di validità della clausola di salvaguardia generale, cioè la clausola che sospende le regole del Patto di stabilità europeo. Anzi, sempre un paio di giorni fa la Commissione ha comunicato la nuova proposta del Patto, da applicarsi dal 2024 e che, tra le altre cose, dovrebbe prevedere deficit più flessibili rispetto all’attuale 3% e sentieri di riduzione del debito molto più lunghi. È totalmente razionale, quindi, che il governo sfrutti al massimo (ragionevolmente) gli spazi di flessibilità che ha a disposizione: se non ora, infatti, quando? Rimane una questione di fondo e non certo secondaria. A che cosa servirà questo deficit? Perché più che al deficit stesso, attenzione ancora maggiore va e andrà dedicata al debito o, per la precisione, al rapporto tra debito pubblico e Pil. Se questo deficit sarà utilizzato per spese produttive, ad elevato moltiplicatore, come direbbero i keynesiani, aumenterà sì il debito ma ancor di più il Pil, così riducendo il rapporto. In caso contrario, allora avremo un problema. La Nadef va nella giusta direzione? I numeri suggeriscono di sì: il rapporto infatti dovrebbe passare dal 145,7% del 2022 al 141,2% del 2025. Naturalmente, è presto per certificarlo: nel documento non ci sono misure specifiche, che saranno invece contenute nella legge di Bilancio. Le proposte di cui si discute al momento e che riempiono le pagine dei giornali devono ancora passare sia il vaglio del Consiglio dei ministri sia quello, più complicato, del Parlamento. Da osservatori, da elettori ma soprattutto da cittadini, attendiamo le risposte che il Paese merita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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