Legge di bilancio, l’incoerenza delle critiche alla Meloni

di Giuseppe Vegas
Sabato 10 Dicembre 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:05
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A sentire le critiche, nella manovra finanziaria del governo Meloni c’è molto che non funziona. Se però si scava nelle proteste si scopre che molte osservazioni sono frutto di meri pregiudizi. Di più: valutata con la dovuta serenità, in questa legge di Bilancio i pro superano di gran lunga i contro. Quanto ai pro, anzitutto un giudizio tecnico: sotto il profilo finanziario si tratta di una legge di bilancio realistica. Lo dicono i numeri. Anzi, si deve dare merito all’esecutivo di essere stato in grado di resistere a molte promesse elettorali.

E di aver circoscritto gli interventi entro un limite di spesa ragionevole, che cerca di conciliare la necessità di contenere la spesa pubblica e la crescita del disavanzo – e di evitare quindi rischi sul mercato del debito - con quella di iniettare liquidità in un sistema, i cui ingranaggi potrebbero incepparsi per mancanza di lubrificante. Certo, dopo due anni di interventi pubblici massicci e circa 300 miliardi di incremento del debito rispetto ai tre anni precedenti, ci eravamo abituati a credere che bastasse mettere mano ai cordoni della borsa per risolvere tutti i problemi. Non è così. Prima o poi si dovrà tornare alla realtà e cercare di porre ordine nei conti. D’altra parte, si rimprovera al governo di aver finanziato i sostegni per le maggiori spese per bollette e combustibili solo per un periodo di tre mesi, ma non si tiene conto del fatto che la guerra, comunque vada, ha modificato per sempre i rapporti tra produttori e consumatori di energia, tra l’Occidente e il resto del mondo, e che, prima o poi, i costi più elevati dovranno essere assorbiti dal sistema. Altrimenti l’anestetico delle compensazioni a carico dell’erario potrebbe sortire l’effetto di impedire la ristrutturazione della nostra industria e provocare una crescente perdita di competitività.

Tra l’altro, è alquanto contraddittorio lamentarsi per un carente finanziamento di questi interventi e contemporaneamente pretendere che non si metta un tappo ai veri pozzi senza fondo che prosciugano risorse. E poco vale affermare che normative come quella del 110 per cento e del reddito di cittadinanza abbiano prodotto un aumento del Pil: ci mancherebbe! Si dovrebbe invece tener presente che nel caso del superbonus l’effetto finale è di spostare risorse dal povero al ricco – con buona pace dei proclami ideologici delle forze politiche che lo hanno imposto – e di creare una turbativa nel mercato che avvantaggia solo i furbi. E ciò, senza trascurare la circostanza che l’aumento dei prezzi provocati nel settore edile è tra le cause dell’impennata dell’inflazione e del suo differenziale rispetto agli altri Paesi europei.

Quanto al reddito di cittadinanza, la carenza di un incentivo vero a darsi da fare per trovare un’occupazione e l’aver mischiato finalità occupazionali ad interventi umanitari ha creato una potenziale bomba sociale lasciata in eredità ai successori.

Il tema ha suscitato anche un intervento della Banca d’Italia che, malgrado le perplessità avanzate nel 2018 circa i suoi effetti di disincentivo della partecipazione al lavoro e il livello del beneficio rispetto al salario potenziale, curiosamente oggi difende integralmente il reddito, affermando che si tratta di un indispensabile contributo a chi si trova in condizioni di bisogno ed invitando il governo a finanziarlo più a lungo, coprendone l’onere con tagli di spesa o incrementi di imposte.

Nelle attuali condizioni si deve invece essere assai prudenti nell’invitare ad aumentare la spesa pubblica. Inoltre, occorrerebbe un’analisi preliminare - e ben potrebbe redigerla un’istituzione come Bankitalia che dispone di un ufficio studi dotato di diverse centinaia di preparatissimi studiosi - circa la diversità degli effetti economici tra un taglio di spesa ed un incremento di imposte.

Se poi guardiamo ai contro, non si può non notare come la manovra si muova in un’ottica sostanzialmente conservativa dell’esistente e statalista, quasi che il governo sia stato costretto ad ereditare l’approccio culturale dei suoi predecessori. In particolare, manca un vero tentativo di modernizzare l’assetto del Paese tagliando rivoli e rivoletti di spesa destinata ad alimentare consolidati centri di interesse, magari anche di rilievo politico, e di liberare le forze e le aspirazioni di ciascun individuo ad ottenere condizioni di vita più soddisfacenti. Certo la flat tax incrementale, malgrado le sue evidenti complicazioni, può rappresentare un tentativo di incentivare la voglia di ciascuno di migliorare le proprie condizioni di vita, e quindi di portare ad un maggiore sviluppo e benessere per tutti. Ma, appunto, la regola dovrebbe valere per tutti e non solo per gli autonomi. E lavoratori dipendenti e pensionati non dovrebbero più restare legati nelle maglie dell’Irpef che, ideologicamente costruita sul mito della progressività, considera benestante, e quindi da “punire”, chi dispone di un reddito superiore a 28mila euro annui.

Quanto alle misure in materia di pagamenti digitali e contanti, con quelle proposte forse si è inteso liberare gli animal spirits dei contribuenti. Ma si tratta di temi troppo limitati per invertire un trend, di là delle strumentalizzazioni capziose di cui abbiamo letto sui giornali. Certo, fissare un limite di 60 euro alle sanzioni per la mancanza dal pos crea confusione operativa, e la norma andrà modificata; ma è anche vero che, nello stesso giorno dei rilievi di Bankitalia, l’Antitrust si pronunciava mettendo in evidenza il meccanismo anticoncorrenziale dei criteri di remunerazione adottati dagli intermediari. Infine, sull’utilizzo del contante spesso si considera la questione non dal punto di vista di come il cittadino può pagare più comodamente, ma, confondendo l’economia con la morale, sotto il profilo del suo possibile, ma non dimostrato, effetto di agevolare l’evasione fiscale. Tema molto caro, quello del recupero delle mirabolanti ricchezze degli evasori, da chi desidera solo disporre di un pretesto per gonfiare il fiume della spesa pubblica facendo finta che nessuno sia alla fine chiamato a pagare. È la storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni.

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