Mafia e trattativa, le lacune della Carta

di Giovanni Verde
Giovedì 26 Aprile 2018, 22:48
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Da giorni mi frulla in testa un pensiero che ho trovato acutamente sintetizzato da De Giovanni nel fondo del Mattino del 25 aprile. Il pensiero si lega ad una mia personale e soggettiva ipotesi sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia (tanto personale e soggettiva da non potere e dovere coinvolgere alcuno). Agli inizi degli anni ’90 l’Italia fu attraversata da una serie di attentati (a Roma, a Firenze, a Milano) che costarono vittime, ma che soprattutto i nostri servizi si mostrarono impreparati a fronteggiare. La novità –ipotizzo- era data dal fatto che la matrice mafiosa degli attentati mal si conciliava con le prassi della mafia siciliana a limitare il suo campo di azione nel perimetro dell’isola (quella prassi per la quale, avendo la mafia condannato a morte Falcone, la sentenza, come ben sapeva e temeva lo stesso Falcone, avrebbe dovuto avere esecuzione in Sicilia: e così fu).
E – ipotizzo sempre - i nostri servizi di «intelligence» non avevano idea su come la catena di attentati si sarebbe potuta sviluppare. Poniamo –secondo la mia ipotesi- che i vertici dei nostri servizi di sicurezza abbiano informato della situazione, tiro a indovinare, il Presidente della Repubblica (che, se ben ricordo, era Scalfaro), dicendogli anche che l’unica cosa che erano riusciti ad accertare era che gli attentati costituivano una reazione alla legislazione sul carcere duro per i condannati per reati di mafia. E poniamo ancora che il Presidente della Repubblica abbia convocato il Ministro della giustizia per valutare che cosa fosse possibile fare per scongiurare altri attentati e altre vittime, posto che i servizi di sicurezza allo stato non erano in grado di prevenirli. E che il Ministro della giustizia, che all’epoca era un raffinato giurista (parlo di Conso), abbia trovato la maniera, utilizzando alcune decisioni della Corte costituzionale, per attenuare il regime del carcere duro. Supponiamo che così siano andate le cose. La domanda che dobbiamo porci, nel momento in cui affidiamo la valutazione di queste complesse e contorte vicende non a chi ricostruisce la storia del nostro recente passato, ma a chi ritiene di poterle trasferire, dopo un quarto di secolo, nel processo e a fini di giustizia, è più o meno la seguente: se fosse vero che le Istituzioni statali agirono per la salvaguardia dell’incolumità dei cittadini, dal momento che gli organismi di sicurezza avevano dichiarato di non essere in grado di assicurare adeguata protezione, i comportamenti che furono tenuti allora sono suscettibili di valutazione sul piano del diritto penale oppure possono costituire esclusivamente oggetto di valutazione politica o, meglio ancora, dato il tempo trascorso, di analisi storica? E se dovessimo ritenere che, essendo da noi l’azione penale obbligatoria, comunque il processo doveva essere celebrato, quale rilievo avrebbe la ragione di Stato che verosimilmente indusse i responsabili a tenere quei comportamenti?
De Giovanni ha da par suo colto ciò che lega questa situazione alla tragedia di Moro. Lascio da parte ogni retropensiero sulla vicenda e mi attengo a quanto se ne sa ufficialmente. I brigatisti avevano posto in essere un ricatto nei confronti dello Stato. Se si fosse aperto un canale di dialogo, ci sarebbe stata una trattativa tra lo Stato e le Brigate rosse (può anche darsi che ci sia stata e che sia fallita). Poniamo che la trattativa avesse avuto successo e che Moro fosse stato liberato in cambio dei chiesti riconoscimenti e benefici. Anche in questo caso –mi chiedo con De Giovanni- l’obbligatorietà dell’azione penale avrebbe imposto di trasferire la vicenda nel processo e di valutare i comportamenti degli organi dello Stato sulla base delle norme criminali, senza che avesse alcun rilievo la ragione di Stato che sarebbe stata a base di quei comportamenti?
Abbiamo il dovere di riflettere, tenendo sotto gli occhi queste situazioni, su quale sia la linea di confine tra ciò che spetta alla responsabilità politica, ossia a ciò che pertiene al mondo dell’azione, che –come sappiamo- è materiato di scelte, necessariamente discrezionali, spesso difficili e talvolta dolorose, e ciò che riguarda l’area del controllo sulla legittimità e liceità dell’azione, che si colloca in un ambiente asettico e inevitabilmente insensibile alla complessità e, talora, alla tragicità degli eventi di vita vissuta.
Su questo, che pure è un punto fondamentale della nostra vita democratica, la Costituzione sconta un’ambiguità, che si è evidenziata sempre di più nel tempo. I Costituenti si erano illusi che, avendo disegnato la Magistratura come un potere «neutro» (un ossimoro logico e nei fatti un’illusione) e avendo posto come linea di demarcazione l’obbligo per i giudici di applicare (e rispettare) la legge, non fosse necessario altro per evitare possibili corti circuiti istituzionali. Le vicende di cui ho parlato mettono in risalto l’ambiguità che dovrebbe essere eliminata, intervenendo in primo luogo sulla disposizione che fissa il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, così dando al pubblico ministero un potere-dovere di indefinibile attitudine espansiva; e, poi, sulla stessa collocazione del pubblico ministero in un organismo unitario, che raccoglie giudicanti e requirenti. È questo, tuttavia, un discorso che è difficile fare in un Paese che, essendo aduso a valorizzare i propri diritti e a mettere la sordina ai propri doveri, si riveste di un abito giustizialista; implacabile quando si tratta di valutare i comportamenti altrui.
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