Se lo stereotipo ​diventa condanna

di Fabrizio Coscia
Venerdì 24 Gennaio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 06:30
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«Sei fortunata! Sei stata appena rapinata a Scampia». Così grida, entusiasta, la guida alla turista americana scippata da due ragazzi in motorino e accade durante una visita di gruppo alle Vele - Wow!! You were robbed in Scampia!». Qualcuno ricorderà, forse, la scena iniziale del film dei Manetti Bros, «Ammore e malavita», dove si immagina una tappa turistica nella piazza di spaccio di Napoli, con scippo incluso, un po’ come in un Safari tour.

C’era da ridere, certo, ma adesso la realtà ha superato l’immaginazione, o semplicemente, come ricordava Oscar Wilde, è che «la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita». A leggerla di primo acchito, in effetti, la notizia ha tutte le caratteristiche di una bufala ingegnosa: un tour operator dell’«Amalfi cost dream», a quanto pare con dichiarati trascorsi nella malavita napoletana, invita i turisti su Tripadvisor e Airbnb, al prezzo di 25 euro a persona, al Mafia tour, «il primo viaggio nei luoghi della camorra di Napoli unico nel suo genere perché spiegato da una persona cresciuta nel sistema». Purtroppo è tutto vero. Il tour prevede la partenza da Forcella «uno dei quartieri dove è ancora presente la camorra anche se non si vede» (dice Vincenzo, l’intraprendente tour operator), poi si prosegue per Spaccanapoli per raggiungere il centro storico, e si conclude con la tappa finale ai Quartieri spagnoli. Durata prevista: tre ore. La guida garantisce anche un’introduzione sulla storia di Napoli e sulle origini della camorra, e precisa che non ci sarà alcun pericolo per i turisti, anche se il gruppo dovrà essere limitato a un massimo di otto persone e vietato ai minori di diciott’anni.

Ora, c’è da dire che tutto questo è sorprendente, ma non può e non deve scandalizzarci. Forse bisognava addirittura prevederlo. Il Mafia tour è infatti la naturale conseguenza di una narrazione di questa città che proprio non riesce ad andare oltre lo stereotipo. E perché non ci riesce? Un po’ perché è così che all’estero (ma anche semplicemente al di sopra di Napoli) piace vederci, come se la città fosse un’elaborazione ideologica e mistificatoria che l’Altro, lo «straniero» ha avviato per costruire, in contrapposizione, la propria identità: da qui l’esotismo, il folclore, lo stereotipo. Ma anche perché questo stereotipo abbiamo contribuito a costruircelo noi stessi, ad autoalimentarlo, vittime e carnefici al contempo. Certo, nel luogo comune c’è sempre conficcato un nocciolo di verità: basta leggere le cronache di ieri, che riportano di una sparatoria tra la folla a Miano. La Camorra esiste, vive, si espande, prospera, chi potrebbe negarlo? E però che cosa succede alla realtà quando diventa stereotipo? Succede che finisce per staccarsi dall’immagine del mondo che la rappresenta. Lo spiegava Guy Debord nel suo libro cult, ormai di mezzo secolo fa, «La società dello spettacolo»: se ci pensiamo bene, il Mafia tour non è, in fondo, che questo «spettacolo» che Debord considerava come l’«inversione della vita». Un’inversione che consiste in una drastica riduzione: la realtà, complessa e stratificata, si trasforma in un’unica dimensione, in questo caso quella della camorra/Gomorra.

E perché saremmo noi stessi a produrre questa inversione? Se Vincenzo è un napoletano doc, se è dall’interno che si produce lo stereotipo è perché (occorre tornare ancora al vecchio Debord) la «merce Napoli» si offre essa stessa come spettacolo, nel suo feticismo (ecco il luogo «dove tutta la storia ebbe inizio», dice Vincenzo sul web) e si offre, per questo, in tutta la sua immaterialità, a un «consumatore di illusioni» (il turista straniero che prova il brivido di una realtà apparecchiata per lui, a suo uso e consumo). Che cosa voglio dire con questo? Che il Mafia tour non è molto diverso, in fondo, da qualsiasi altro spettacolo proposto ai turisti mordi-e-fuggi di qualsiasi altra metropoli del mondo, ma allo stesso tempo ha, per certi aspetti, qualcosa di particolarmente degradante: perché la città che si presta a questa messinscena, riducendosi a prodotto da vendere per il consumo (im)mediatico, sminuisce, aliena, cancella la sua identità, trasformando l’intero spazio urbano in una rappresentazione illusoria. È, per dirla tutta, una città che si prostituisce allo sguardo inebetito del turista a caccia di emozioni prefabbricate.

Forse sarebbe il caso, allora, di inventarsi un turismo diverso: un turismo a cui si possa proporre non la facile lusinga di un’immagine che già si conosce, la conferma rassicurante e pittoresca, cioè, di un pregiudizio, di uno stereotipo; ma piuttosto l’impegno, e perfino - perché no? - la difficoltà, di una scoperta: c’è una Napoli diversa, una città sconosciuta e meravigliosa, che non si dà come merce, ma che va invece stanata, pedinata, indagata, svelata con passione e dedizione. C’è qualche tour operator disponibile a farla conoscere?
 
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