Alla fine degli anni ‘80, più o meno tra il primo e il secondo scudetto del Napoli, cominciò a circolare per la città una singolare interpretazione del Libro della Genesi: Dio creò il calcio, poi lo diede a Maradona e disse: va’ a insegnarlo per il mondo. Basterebbe questa appropriazione del primo libro della Bibbia (certamente indebita, e anche piuttosto sfacciata) per illustrare la «portata di sacralità» che la vox populi riconobbe fin da subito nei funambolici dribbling e nelle goleade dell’asso argentino. «Sacralità» alla quale ha fatto non a caso riferimento il teologo Michele Giustiniano, uno dei curatori del libro Il Vangelo secondo Diego presentato ieri nello studio del cardinale emerito Crescenzio Sepe.
Diego come interprete di una missione divina, Diego che incarnò e ancora oggi incarna, dall’alto dei cieli, la Bellezza che viene da Dio e che forse salverà il mondo, come sosteneva Dostoevskij, o forse no. Diego che mise il suo straordinario talento al servizio degli uomini e soprattutto degli ultimi: non per salvarli, non per redimerli, ma per elevarli dalle loro umane miserie. Insomma il più grande calciatore di tutti i tempi sacralizzato e investito di una funzione quasi sacerdotale: vedete quest’uomo? E Dio che vi parla, attraverso i suoi Piedi.
Anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, nel suo film più intimo e personale, È stata la mano di Dio, affida al mito di Maradona una funzione in qualche modo salvifica: la mano de Dios, il campione sputato da una bidonville di Buenos Aires per raccontare al mondo la bellezza del calcio, è quella che si posò sulla sua testa trattenendolo a Napoli nel giorno in cui i genitori avrebbero trovato la morte nel sonno a Roccaraso a causa di una fuga di monossido di carbonio.
Ma al di là del genio visionario di Sorrentino, è evidente come la parabola umana e sportiva di Maradona si presti a una narrazione sacralizzata, nonostante gli eccessi, le iperboli e le tantissime ombre che, soprattutto nell’ultima parte della sua esperienza napoletana, lo avvolsero in una specie di nube tossica, trasfigurando la sua faccia ridente e pulita in una maschera dolente, quasi tragica.
Certo è che la vita e la morte di Diego diventano sempre più materia per teologi. I quali sottolineano - giustamente, dal loro punto di vista - la necessità di «arginare il tentativo di canonizzazione» del campione sudamericano. In effetti non ci stupiremmo se qualcuno, rovistando tra i miracoli molto terreni del Pibe, decidesse di proporre ufficialmente alle alte sfere del Vaticano la canonizzazione di Maradona. Né ci stupiremmo se questa richiesta (che difficilmente verrà accolta) partisse da Napoli, città che ha sempre avuto una larga consuetudine con i feticci e con gli dei pagani (e di Maradona, il più pagano degli dei, raccolse finanche le ciocche dei capelli).
Insomma, e al di là dei paradossi, noi crediamo che il tema della “sacralità” di Maradona vada molto al di là delle chiacchiere da bar, e sia anzi maledettamente serio.
Lo stesso rapporto dei napoletani con il loro santo “ufficiale” - il martire Gennaro, decapitato nei pressi della Solfatara di Pozzuoli mentre infuriava la persecuzione di Diocleziano - è profondamente laico. Basti pensare a quello che avvenne a Napoli il 13 gennaio del 1527. Quel giorno, attraverso gli Eletti dei Sedili, venne stipulato un vero e proprio contratto notarile con San Gennaro. Un contratto a regola d’arte, stipulato davanti a ben cinque notai napoletani, in rappresentanza del religioso, il quale, essendo morto da più di 1200 anni, poteva essere presente solo in spirito. Il popolo napoletano chiedeva a San Gennaro la protezione della città e la salvezza dalle sciagure. Lo nominava, a tutti gli effetti, “defensor civitatis”, paladino dei paladini. In cambio, in onore del santo, si sarebbe realizzata una nuova cappella all’interno del Duomo dove custodire le reliquie e il Tesoro.
È opportuno ricordare che a Napoli, città la cui storia è intrisa di elementi mitici e simbolici, San Gennaro ha occupato uno spazio che prima apparteneva ad altri. Prima di San Gennaro era stato un Poeta a incarnare il ruolo di genius loci: Publio Virgilio Marone, e prima di Virgilio (al quale la fantasia popolare attribuì ogni genere di prodigio) era stato il turno della Sirena Partenope, demone marino o uccello antropomorfo, umanizzato al punto da morire per amore e diventato oggetto di culto.
Insomma è l’anima stessa della città a incarnarsi nei miti, di ieri e di oggi. Miti che a Napoli non sono mai lontani della realtà. E continuano a parlarci, a interagire con noi. Da un lontano passato, dalle schiere del paradiso o, perché no, da un campo di calcio. Dove ci celebrò la favola di un santo laico, uno sfrontato Dio del pallone che mise interamente se stesso - anima e corpo - a disposizione di una città che dalla notte dei tempi ha bisogno di simboli da idolatrare.