Maradona, il re dei capitani che Napoli porta nel cuore

di Francesco De Luca
Venerdì 25 Novembre 2022, 00:12 - Ultimo agg. 06:00
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MaradoNapoli è sempre qui. Immutabile nei suoi cambiamenti perché passano gli anni ma un sentimento non si cancella o non si baratta. 

Vive anche dopo la morte del calciatore più bravo e - sicuramente qui - più amato di tutti i tempi. Oggi non è come il 25 novembre di due anni fa, quando i napoletani avvertirono un forte dolore: la terribile sensazione che il mondo si fosse fermato nell’attimo in cui arrivò la notizia dall’Argentina. Maradona è ancora a Napoli, come nei giorni che hanno vissuto anche quelli che non c’erano perché hanno potuto ascoltare racconti e vedere filmati di un’emozione mai spenta. È al fianco dei suoi tifosi e di questi eredi azzurri che puntano a vincere il terzo scudetto. È sulla copertina del libro “Capitani” che oggi Il Mattino distribuisce gratuitamente in edicola, allegato alla copia del quotidiano. La storia della squadra, lunga quasi cent’anni, riletta attraverso i capitoli dei 28 capitani azzurri. Tutti hanno portato al braccio con onore la fascia, come fa oggi Di Lorenzo, che in campo spinge con tutti i suoi compagni, animati dalla voglia di far esplodere di felicità Napoli a inizio giugno.

Sentiamo vicino Diego anche in questo Mondiale, il primo dopo la sua scomparsa. Assistendo al coraggioso silenzio dei calciatori iraniani durante l’inno e alla protesta dei nazionali tedeschi, leggendo il diktat di Infantino ai 32 capitani (la “minaccia” di un cartellino giallo ha avuto la forza di fermare le proteste), ci siamo chiesti quale sarebbe stata la sua reazione. Non ci voleva molto, certo: si sarebbe ribellato ancora una volta. Maradona non ha mai avuto paura dei potenti, politici o padroni del calcio che fossero: li ha sfidati tutti a viso aperto, da Bush a Matarrese. Ha scelto spesso alleati scomodi: Castro, Lula, Chavez. Non si sarebbe schierato dalla parte di Infantino, pure suo amico, questo è certo. «Diego avrebbe spinto tutti gli altri a seguirlo nella ribellione al sistema», riflette ad alta voce Fernando Signorini, suo preparatore atletico anche nei sette anni di Napoli.

I più esaltanti della sua carriera, con un epilogo triste: la fuga dall’abitazione di via Scipione Capece nel pomeriggio di Pasquetta del ‘91, dopo la squalifica per cocaina.

Scrissero su un muro di via Orazio nei giorni in cui avemmo la certezza che la bellissima favola era finita: «Diego anche il sole risorge». Per lui questo non avvenne nonostante i disperati sforzi di inseguire una vita normale, tentando di diventare un sereno nonno e un bravo allenatore. Non avrebbe mai potuto avere una vita così: questa la condanna di un uomo che è stato così straordinario da restare nel cuore di un popolo, il nostro, anche trentun anni dopo il suo addio a Napoli e due anni dopo la sua morte, annunciata tra le lacrime da Gianni Di Marzio, l’allenatore di Mergellina che per primo lo scoprì nel ‘78. Quanto ci manca anche lui. Stasera accenderanno fumogeni rossi davanti alla curva dello stadio che venne subito ribattezzato Diego Armando Maradona, faranno processioni nei luoghi dei murales (e altri ne sono spuntati in queste ore), ognuno tirerà fuori un ricordo e ci sarà anche chi giocherà una partita su un campetto di Montesanto. Sono i bambini di quartieri emarginati che costruiscono i loro sogni inseguendo il pallone, come faceva Diego a Villa Fiorito, la periferia delle periferie. Per questo, avendo vissuto la povertà che gli diede la forza per arrivare in cima al mondo, si innamorò di Napoli e promise ai bambini divertimento e scudetto. I bambini sono diventati uomini, con le loro gioie e i loro affanni, e il pensiero di Maradona ha continuato ad accompagnarli. Ecco perché due anni dopo siamo qui a dargli ancora una carezza.

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