Maraini: «Confesso che ho vissuto
e non cambierei niente»

Maraini: «Confesso che ho vissuto e non cambierei niente»
di Francesco Mannoni
Giovedì 25 Novembre 2021, 23:51 - Ultimo agg. 26 Novembre, 07:21
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«Che effetto mi fa essere entrata nell’Olimpo della letteratura?»: Dacia Maraini si ripete la domanda con un misto di gioiosa incredulità. «Mi sento lusingata, appagata, fa piacere. É un segno di stima. E secondo me le donne hanno tanto bisogno di stima, più che di ammirazione (di solito diretta alle loro qualità estetiche più che alle loro capacità funzionali ed etiche). L’intelligenza e il talento non sono ancora considerate un punto di riferimento essenziale per giudicare una donna. Perciò considero un Meridiano dedicato a una donna, un progresso non solo per me ma per tutte le donne». I Meridiani Mondadori hanno infatti aperto le porte a Dacia Maraini, che porta con sé «la dedizione inossidabile al gesto dello scrivere» che, come scrive Paolo di Paolo nell’introduzione, «l’ha portata ad esplorare oltre al campo del romanzo (sondato in lungo e in largo: storico, autobiografico, epistolare, giallo) la drammaturgia, anche nella veste di regista, della sceneggiatura cinematografica, della traduzione dei classici della letteratura, della poesia, del giornalismo di inchiesta e di opinione, del reportage di viaggio, dell’intervista con una speciale capacità di stanare l’interlocutore». Il volume intitolato Romanzi e racconti (pagine 1856, euro 76, a cura di Paolo Di Paolo ed Eugenio Murrali), ripropone sette romanzi, fra cui i suoi più famosi long seller (La lunga vita di Marianna Ucria e Bagheria) e una scelta di racconti che sono altrettante fasi di un progetto di scrittura imperniato sulla realtà delle cose, sugli affetti e i ricordi.

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Signora Maraini, a distanza di 60 anni dalla pubblicazione del suo primo romanzo, qual è oggi, secondo lei, la situazione della cultura italiana rispetto ai suoi esordi letterari?
«Direi che la globalizzazione si è fatta sentire energicamente. La letteratura, quando ho cominciato io a pubblicare, era considerata una attività per poche persone e doveva seguire un apprendistato da artigiano appassionato al suo mestiere. Oggi lo scrivere è diventata una attività di facilissimo accesso, il che sembra un progresso dal punto di vista della democrazia, ma purtroppo è diventata una prassi al ribasso, privata di competenza, di attenzione profonda ai problemi linguistici, portata avanti con sciatteria e noncuranza. Gli effetti si vedono: si pubblicano nel nostro paese 65.000 libri l’anno e quasi la metà di questi testi vanno a finire al macero. Un mare di materiale scadente, in cui si perdono quei pochi prodotti di qualità che certamente ci sono, ma spariscono nel mare magnum delle ambizioni letterarie».
Chi riesce a farcela?
«Come sempre si salvano le persone di talento, le persone serie che hanno a cuore la verità e la sperimentazione. Ma direi che la tendenza al ribasso ha portato a un imbarbarimento del linguaggio e di conseguenza dei rapporti. La maleducazione, la mancanza di rispetto verso l’altro, l’uso sempre più frequente di termini inglesi (le macchine parlano inglese e quindi ci si adegua), stanno imbastardendo la nostra lingua e quindi anche il nostro pensiero».
Le memorie di Dacia?
«Devo dire che io sono sempre stata proiettata verso il futuro. Non vivo di nostalgie e di rimpianti. Infatti sto facendo molta fatica a scrivere un libro sul campo di concentramento giapponese in cui sono stata rinchiusa per due anni. Ne ho accennato, anche in Bagheria, ma non ho mai raccontato nei particolari le lunghe e terribili giornate fra vita e morte del campo di Nagoya e ci tengo a farlo ora, ma faccio fatica a pescare nella memoria personale».
Se potesse tornare indietro nel tempo, cambierebbe qualcosa di ciò che è stata la sua vita e il suo percorso letterario?
«Non cambierei niente: confesso che ho vissuto. Ho agito per amore e non per calcolo. Si fanno sempre sbagli ma se sono fatti per amore (delle persone, dei luoghi, di un mestiere) ci si perdona. Altrimenti si viene divorati dal senso di colpa che è il peggiore dei veleni».
Lei ha scritto romanzi, racconti, poesie, saggi e opere teatrali: le serviva questa diversificazione per avere più voci che le permettessero di abbracciare, divulgare e condividere più idee?
«Io mi considero una raccontatrice di storie. Mi piace ascoltarle e raccontarle. Ci sono delle storie che vogliono essere rappresentate ed ecco il teatro. Altre storie vogliono essere ritmate come uno spartito musicale ed ecco la poesia. Altre ancora si cimentano col mistero del passaggio del tempo, ed ecco il romanzo».
E la Maraini drammaturga?
«Ho cominciato a scrivere testi teatrali prima ancora che racconti o romanzi. Al collegio della Santissima Annunziata di Firenze scrivevo piccole recite per le mie compagne. Poi sono venuti i racconti che scrivevo per il giornale della scuola di Palermo e, in ultimo, il romanzo».
«La lunga vita di Marianna Ucria» resta il suo libro più popolare, ma «Bagheria» sembra contendergli il successo: in che rapporto mette queste due opere con la sua vita?
«Sono due libri nati dalla passione storica.

Non mi interessa tanto la memoria del mio passato, ma quella collettiva. La storia per me è sempre stata una fonte di conoscenza e di esperienze profonde. A scuola, alle medie, leggevo di nascosto da un insegnante particolarmente noioso Plutarco e Tucidide. Di Erodoto poi mi sono innamorata: mi portavo dietro il libretto della Bur che infilavo in ogni tasca o zaino o borsa, per leggerlo appena potevo. Conservo ancora quel vecchio volume scarabocchiato e squinternato».

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