Leggere Matilde Serao per capire meglio ​il nostro tempo

di Titti Marrone
Domenica 2 Ottobre 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Erano numerosi ed entusiasti gli studenti del liceo Matilde Serao intervenuti, con quelli di altre scuole, ieri al teatrino di Corte di Palazzo Reale per il premio intitolato alla fondatrice del Mattino ed attribuito quest’anno alla scrittrice Jhumpa Lahiri. E le righe che seguono sono per loro: sono un invito a seguirci in un viaggio nel tempo.

Immaginando di ripercorrere le orme di una maestra del giornalismo e della scrittura, fornita di una qualità di attenzione per Napoli preziosa anche oggi. E allora: immaginate, ragazzi, di camminare per i vicoli, i fondaci, gli anfratti cupi mai sfiorati dal sole nel ventre della Napoli di fine Ottocento. O meglio, fate conto di guardare la città come se i vostri occhi fossero quelli di qualcuno che li fermasse sulle fogne a cielo aperto, i luridi bassi dove si viveva ammassati a decine, le pozzanghere fetide da schivare. Quel qualcuno è Matilde Serao, la prima giornalista italiana ad aver fondato e diretto quotidiani, il suo sguardo è quello che diede vita allo straordinario reportage che scrisse quasi in presa diretta durante il colera del 1884, che a Napoli fece 7994 vittime. E i suoi formidabili articoli, apparsi su una rivista romana e poi raccolti in un libro di nove capitoli uscito da Treves, Il ventre di Napoli, resero possibile ciò che ognuno di voi, se sogna di fare il giornalista, non può non desiderare, e che coincide esattamente con quello che ogni giornalista si augura: intervenire sulla realtà per cambiarla. Serao non ebbe alcun timore di rivolgersi al potere con piglio deciso, con un incipit audace e modernissimo (Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo, e il Governo deve saper tutto). Quel reportage in nove puntate lasciò un triplice segno potente: propiziò la prima indagine parlamentare dell’Italia unita, l’inchiesta Saredo sulla corruzione, poi lo sventramento dei quartieri degradati e malsani, poi la prima Legge Speciale per il Sud. Voluta da Francesco Saverio Nitti, con l’insediamento dell’Ilva. 

Basterebbe già questo. Ma guardiamo anche alla sua complicata vita, alla sua personalità unica: ci sono molte altre ragioni perché Matilde sia un esempio per le giovani e i giovani, e soprattutto perché ognuna delle donne scriventi, e tutte le circa 15mila giornaliste oggi attive in Italia, debbano considerarsi sue debitrice. La più sostanziale: avrebbe potuto crogiolarsi nel successo letterario per romanzi popolarissimi come Il paese di cuccagna o La virtù di Cecchina. Invece fu la prima a “pensare” sé stessa come una giornalista. Così, e non scrittrice, si definiva con orgoglio, rompendo la declinazione esclusivamente maschile del termine, riconoscendosi nella “febbre talvolta bruciante”, nel “soave e imperioso male dello spirito che quel mestiere comportava”.

Vale sottolinearlo per le ragazze, soprattutto: fu Napoli il luogo da cui lanciò la sua sfida al cielo di un mondo da sempre maschile, come co-fondatrice del Mattino nel 1892, fianco a fianco con quello Scarfoglio cui si legò in un inedito sodalizio sentimental-professionale. 

Il talento di Matilde si rivelò subito e tra i due si operò una singolare divisione dei compiti, o meglio una divaricazione: lui politicante, sanguigno, polemico e traffichino, colluso con esponenti della vita pubblica e degli affari a scopi personalistici, fino a dar luogo a una categoria non esattamente esaltante, lo “scarfoglismo”; lei cronista capace d’intercettare gli umori popolari come di raccontare il mondo dei salotti e dei circoli borghesi cittadini, di ideare il primo inserto culturale italiano e di convogliare intorno al Mattino firme come D’Annunzio, Roberto Bracco, Francesco Mastriani. Matilde, che si sarebbe firmata con pseudonimi – oggi diremmo nickname - come Gibus, Tuffolina, Chiquita, raccontò come nessuno la Napoli della belle époque in piccolissimi testi succosi, i Mosconi: un po’ forzando, potremmo considerare quei brevi articoli come una specie di tweet ante litteram, scritti con il linguaggio di allora. Ma la sua vera forza furono il fiuto da cronista, rivelato in quel reportage scritto a soli 28 anni, e la passione per il racconto di Napoli. Intanto Scarfoglio, vero acrobata della penna, cambiava casacca, fingeva di scorticare i potenti ma spesso lo faceva secondo propria convenienza, e molto si avvaleva del gran talento di sua moglie, però ripagandola con la moneta dolorosa dei tradimenti e infine dell’abbandono. 

Sfogliamo il libro della sua vita e impariamo. Lei no, non si vendicò, e tantomeno si annichilì. Lasciò dignitosamente il Mattino, ebbe altri amori, fondò un suo giornale, continuò a scrivere, scrivere e scrivere. Trovò anche il tempo di occuparsi dei quattro figli maschi e in più della bambina avuta da Eduardo con un’attrice che gliel’aveva lasciata sull’uscio di casa, dopo essersi suicidata davanti ai suoi occhi. Lavorò di scrittura fino all’ultimo dei suoi giorni, lasciandoci una rappresentazione di Napoli e dei suoi ceti sociali ancora oggi decisiva come un paio di lenti da indossare – da parte vostra, ragazzi, e non solo - se vogliamo davvero capire la città dove viviamo. Per cambiarla, magari.

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