Mattarella l'unica via (stretta) verso il bis

di Pietro Perone
Martedì 30 Novembre 2021, 00:13 - Ultimo agg. 06:00
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C’è un tema istituzionale che il capo dello Stato ha posto in due occasioni negli ultimi mesi, ma su cui i partiti sono stati disattenti: la immediata rieleggibilità del presidente della Repubblica. A chiedere lo stop a un secondo mandato consecutivo, ha ricordato Sergio Mattarella, fu nel 1963 Antonio Segni quando dal Quirinale inviò un messaggio alle Camere. Riprovò Giovanni Leone nel 1975 quando da presidente del Consiglio si fece promotore, prima di essere eletto al Colle, di un disegno di legge che puntava a vietare il mandato bis eliminando nel contempo il semestre bianco. Entrambi i precedenti storici sono stati ricordati dal presidente nel tentativo di far capire alla politica che il suo no alle rielezione, oltre a essere una sacrosanta e più che giustificata scelta personale, si inserisce nel solco di un dibattito costituzionale che prima di lui altri hanno aperto.

Per Segni, infatti, il periodo dei sette anni è sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato e modificare la norma «allontanerebbe - scrisse - qualunque, pur ingiusto sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione». Mattarella ha infatti sottolineato «che una volta disposta la non rieleggibilità si potrà pure abrogare la disposizione dell’articolo 88 comma due della Costituzione che toglie al presidente il potere di sciogliere la Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato», il semestre bianco che stiamo vivendo.

Alle parole del presidente non ha fatto seguito una risposta nel merito, mentre diventa sempre più pressante l’appello a “congelare” i due principali Palazzi del potere ora che la pandemia ha ricominciato a correre e il Paese è sempre più di fronte allo sfida storica di una ripresa solo imboccata e tutta ancora da consolidare grazie a un oculato utilizzo dei fondi del Recovery. 

L’altro giorno sia Enrico Letta che Silvio Berlusconi, prima di loro Renzi, ieri Salvini, hanno ripetuto che «Mario Draghi deve rimanere premier almeno fino al 2023». Il solo che in questo momento viene ritenuto in grado di guidare il Paese con una maggioranza così ampia che va dalla Lega e Leu, l’unico italiano che di fatto è già il leader di un’Europa orfana della Merkel. Ma Draghi unanimemente è considerato anche l’uomo giusto per il Colle, colui che potrebbe evitare al Parlamento di essere travolto dalla “tempesta” del quarto scrutinio, quando per eleggere il capo dello Stato servirà la maggioranza semplice e in assenza di un candidato condiviso tutto potrà accadere, con l’inevitabile implosione dell’attuale larga coalizione.

Nel chiedere però che Draghi resti al proprio posto, si invoca di fatto il sacrificio di Mattarella che dovrebbe incamminarsi nel secondo mandato come è accaduto al predecessore, Giorgio Napolitano, in virtù di quella rieleggibilità che proprio l’attuale presidente ha sottolineato andrebbe eliminata.
Ecco perché i disperati Sos dei partiti al momento appaiono destinati a restare tali.

E se invece di invocare il mandato bis si provasse a dare seguito alle parole di Segni, Leone e ora di Mattarella? Aprire dunque il confronto sulla modifica costituzionale della rieleggibilità, una strada stretta ma che potrebbe consentire ai partiti di avere un motivo in più per chiedere al presidente di restare almeno fino a Costituzione modificata. Perché è evidente che l’introduzione della norma porterebbe a doverose dimissioni di un capo dello Stato rieletto in virtù di un articolo poi cancellato.

Un percorso che si scontrerebbe ugualmente con il “no, grazie” di chi ha dovuto affrontare sul Colle prove difficilissime e tutte superate brillantemente, ma resta il fatto che a Mattarella è comunque dovuta una risposta nel merito del tema che lui ha posto e in tempi ragionevolmente veloci. 

Nel 1992, di fronte al pericolo di un ingorgo istituzionale per la contemporanea conclusione della legislatura e la fine del mandato al Quirinale di Francesco Cossiga, su iniziativa del deputato socialista Silvano Labriola, si riuscì a modificare l’articolo 88 della Costituzione che consente al Capo dello Stato di sciogliere le Camere quando gli ultimi sei mesi del mandato coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. Un’altra riforma lampo fu quella dell’Articolo V che assegnò nuovi, e spesso spropositati poteri alle Regioni, anch’essa approvata in un battibaleno rispetto ai tempi della politica italiana. Ecco perché, al di là della ferma volontà di Mattarella di lasciare il Colle dopo sette anni di duro lavoro, ai partiti toccherebbe fornire una risposta a un problema aperto da 58 anni e che Mattarella ha rilanciato, mettendo da parte gli appelli generici e prospettando invece soluzioni istituzionali, unico possibile piano di confronto con chi è stato giudice costituzionale ed è ora custode della Carta.

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