Mattarella rieletto: vince il Paese, perdono i partiti

di Federico Monga
Sabato 29 Gennaio 2022, 23:30 - Ultimo agg. 30 Gennaio, 12:59
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Alla fine a contare è il risultato. E il risultato per l’Italia è ottimo. Sergio Mattarella resta al Quirinale, Mario Draghi alla guida del governo. La pandemia non è ancora finita, il rilancio dell’economia è solo all’inizio, le riforme sono allo stato embrionale e gli investimenti del Piano di ripresa e resilienza sono stati (in parte) impostati ma restano ancora molto lontani dal produrre gli effetti necessari a modernizzare il paese e a colmare i divari tra Nord e Sud. Il Paese continuava ad aver bisogno di stabilità, di autorevolezza, di serietà, di competenza e di riconoscimento internazionale. Mattarella dal Colle e Draghi da Palazzo Chigi ne sono la massima garanzia. Lo pensano la maggioranza dei cittadini italiani, i nostri partner stranieri e lo hanno, per fortuna, pensato anche molti grandi elettori in Parlamento. 

Se, come diceva il grande Principe de Curtis, è la somma che fa il totale, non si possono però non analizzare gli addendi. Ovvero il percorso e i protagonisti che hanno portato, è sempre bene ricordarlo contro la sua volontà, Mattarella al secondo settennato.

Il giudizio non può essere altrettanto positivo, soprattutto per i leader dei partiti. Diciamolo senza giri di parole: escono, chi più chi meno, delegittimati nel loro ruolo. 

Trent’anni fa, tra qualche giorno, per la precisione il 17 febbraio, con l’arresto di Mario Chiesa da parte della procura di Milano iniziava la Seconda Repubblica. In questo lasso di tempo si sono tenute quattro elezioni per il Capo dello Stato. Carlo Azeglio Ciampi, due volte Giorgio Napolitano e, con il plebiscito di ieri, il bis di Sergio Mattarella. Non si può non notare come tutti e tre affondino le loro radici politiche e culturali nella Prima Repubblica. 

In trent’anni, che è un lasso di tempo molto lungo, i leader dei partiti non sono stati capaci di esprimere un presidente figlio della loro stagione nata con il terremoto di Tangentopoli. L’occasione più grande, forse, è stata proprio quest’ultima. Un’opportunità che era, soprattutto, nelle mani del centrodestra. I partiti, da Fratelli d’Italia a Forza Italia, passando per la Lega di Matteo Salvini, non avevano la maggioranza dei voti per eleggere, ma di certo avevano la minoranza più cospicua per provare a portare sul Colle una personalità proveniente dall’area di centrodestra. Non ci sono riusciti, un po’ per le divisioni interne, molto per una gestione delle trattative, affidate al segretario della Lega e improvvisate sia nella tattica, non parliamo di strategia per carità, che nella proposta dei candidati alla carica più alta del Paese. Salvini è, non lo si può negare, il grande sconfitto. Il centrodestra partiva da un tesoretto di voti, al lordo certo dei soliti franchi tiratori, di circa 440 grandi elettori. Non era troppo difficile da comprendere che i partiti e il loro pivot Salvini avrebbero dovuto e potuto guardare al centro per provare a costruire un percorso politico attorno a un candidato all’altezza, per storia, conoscenza istituzionale e rapporti super partes in Parlamento, del ruolo di massima carica dello Stato. 

Quel candidato di centro poteva essere l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, arrivato almeno due volte in questi giorni ad essere un nome su cui far convergere un consenso bipartisan. Ma il suo stile, il suo senso delle istituzioni, non a caso appresi dalla Prima Repubblica e confermati anche durante la conferenza stampa con cui ha pregato di non considerare il suo nome nella corsa al Quirinale, forse non poteva dialogare con chi invece ha preferito proporre, bruciare e far bruciare nel giro di un’ora una serie infinita di personalità, ciascuna di grande rispetto nei propri ruoli e mestieri, ma nessuna con vere chance di successo o con quelle conoscenze necessarie per ricoprire il, diciamolo con la necessaria pomposità, sommo compito di Capo dello Stato. 

Difficile comprendere che cosa abbia legato e quale filo politico logico, in un momento emergenziale, ci sia stato tra Letizia Moratti, Carlo Nordio, Sabino Cassese, Elisabetta Belloni, Marcello Pera, Franco Frattini, Giampiero Massolo, Elisabetta Casellati. Per altro nessuno eletto nei due rami del Parlamento. Fa eccezione il presidente del Senato che però ieri non ha avuto nemmeno il galateo istituzionale di staccare lo sguardo dal telefonino mentre tutta l’aula applaudiva il raggiungimento della maggioranza dei voti da parte di Mattarella. Insomma, il centrodestra ha fallito il bersaglio quando era alla sua portata. Era già avvenuto pochi mesi fa nella scelta dei candidati dei sindaci delle grandi città. Eclatante il caso di Roma dove le chance di vittoria erano su un piatto d’argento e sono state gettate alle ortiche da Giorgia Meloni scegliendo Enrico Michetti. Il centrosinistra, allora nei Comuni come oggi nella partita del Quirinale, ha dunque avuto gioco facile più per insipienza degli avversari che per meriti propri. Il leader dei 5Stelle Conte, dopo aver girato a vuoto per cinque giorni, è riuscito a sbagliare anche l’ultima mossa, peccato mortale per chi aspira a fare il leader politico, proponendo la carta della donna e della Belloni senza capire dove stavano andando i grandi elettori, suoi compresi. Enrico Letta è rimasto immobile e ha giocato di rimessa. Fermo in panchina a guardare l’ipercinetico Salvini farsi male da solo. 

Tutti i capi partito, con l’eccezione di Meloni, hanno comunque dimostrato di non controllare i loro gruppi. Il nome di Mattarella è cresciuto spontaneamente di giorno in giorno in un Parlamento che, in autogestione quasi come in una scuola occupata, si è ripreso il suo ruolo dopo essere stato ridotto da anni a «votificio» di decreti legge. L’elezione bis di Mattarella sarà dunque ricordata per la fine della generazione dei leader populisti, forti sui social e nelle dichiarazioni ad effetto, ma deboli nella costruzione dei meccanismi di una grande democrazia. Resterà nei manuali di storia per la debolezza dei capipartito che non sono nemmeno stati in grado di salire al Colle per certificare il fallimento delle trattative e chiedere al presidente Mattarella la disponibilità al bis. È stato infatti il premier Draghi a dover svolgere, ancora una volta con responsabilità e senso del dovere, un ruolo di supplenza della politica che sembra destinato a continuare ancora. 

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