Mattarella unisce nel vuoto dei partiti

di Massimo Adinolfi
Mercoledì 8 Dicembre 2021, 23:45 - Ultimo agg. 9 Dicembre, 06:00
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La Scala di Milano chiede il bis di Mattarella. A gran voce, mentre un fragoroso applauso saluta il presidente della Repubblica per sei lunghi minuti. Poi le luci si abbassano per la prima del Macbeth diretta dal maestro Riccardo Chailly, e il dramma va in scena. 

Ma in un’opera del genere tutto deve dire qualcosa, scriveva Verdi al librettista, Francesco Maria Piave, nei mesi in cui lavorava al «dramma scozzese». E qualcosa deve voler dire pure l’ovazione del pubblico milanese. Tanto più che non diversa era stato il benvenuto del San Carlo, a Napoli, per l’Otello di Mario Martone. Cambia il lbrettista (per l’Otello Verdi si affidò ad Arrigo Boito), cambia il teatro e cambia la città, ma l’accoglienza per il Presidente è la stessa: altrettanto calorosa, altrettanto sentita.

Ora, Sergio Mattarella ha ripetutamente negato la sua disponibilità per un ulteriore mandato. Ha sempre considerato un’eccezione la rielezione di Napolitano, nel 2013; se l’eccezione si ripetesse, somiglierebbe troppo a una nuova regola. Per giunta, sarebbe come dire che, ancora una volta, il sistema è inceppato, e la politica non ce la fa ad affrontare i suoi appuntamenti decisivi senza ricorrere a soluzioni «emergenziali». Fisiologia vorrebbe invece che, dopo un intero settennato, le stanze del Quirinale ospitassero un nuovo inquilino: non è scritto in Costituzione, ma sette anni sono tanti.

E però tutto deve dire qualcosa, e il pubblico di Milano, come quello di Napoli un paio di settimane fa, offrono a Mattarella un’attestato di stima il cui significato, forse, trascende persino la sua persona. Al dodicesimo Presidente della Repubblica non è mai mancato il consenso del popolo italiano.

L’equilibrio, la compostezza e la serietà con cui ha esercitato il suo ruolo gli sono riconosciuti da tutte le forze politiche. Ma gli applausi probabilmente volevano dire qualcosa di più, volevano formulare un auspicio, che la scadenza del Quirinale non si accompagni a turbolenze, a un periodo di instabilità, a un vento di incertezze. La fine del mandato presidenziale, la fine della legislatura, la fine del governo: in un modo o nell’altro, tutto può accadere. Ma è probabile che l’altra sera in platea, nei palchi e nel loggione non ci fosse nessuno che si augurasse un cambio di scena (scena politica; per l’allestimento di Livermore non so: leggo che è stato un successo). È chiaro che la conferma di Mattarella al Quirinale sarebbe il migliore puntello per la tenuta del quadro politico: Draghi rimarrebbe al suo posto, e le possibilità di anticipare il ricorso alle urne si ridurrebbero al lumicino.

Se invece sul più alto Colle dovesse salire qualcun altro (o qualcun’altra), allora qualche incognita si affaccerebbe.

Se fosse Draghi, sarebbe davvero complicato trovare un sostituto a Palazzo Chigi, in grado di tenere insieme l’amplissima maggioranza che sostiene l’attuale esecutivo. E chi se la sente di assicurare che cambiare maggioranza non farebbe precipitare la situazione? Per giunta, l’idea assai balzana di spostare, con Draghi al Quirinale, anche il pallino dell’azione di governo, sarebbe, quella sì, un’eccezione. Anzi: qualcosa in più. Quando Luigi Einaudi, il primo presidente eletto, lasciò il Colle, lasciò pure qualche istruzione per l’uso del potere presidenziale: «la politica del paese – scrisse nella prefazione a «Lo scrittoio del Presidente» – spetta al governo il quale abbia la fiducia del Parlamento e non invece al Presidente della Repubblica». Più chiaro e netto di così.

Allora bisognerebbe ragionare su altre candidature. Ma anche l’elezione di un nuovo Presidente con una maggioranza diversa e più ristretta di quella che oggi appoggia Draghi potrebbe procurare qualche contraccolpo sull’esecutivo. A non dire che non sarebbe per nulla facile, visto che di registi (king maker, come si dice) in grado di gestire un passaggio così delicato in Parlamento non ce ne sono. Nessuno, ad oggi, sa quale possa essere il punto di caduta delle ambizioni personali di Berlusconi, delle aspirazioni del centrodestra a portare sul Colle un proprio candidato – sarebbe la prima volta –, della volontà di Renzi di essere determinante, della necessità, per il Pd, di mantenere comunque un ruolo centrale, del timore di molti parlamentari di tornare a casa anzitempo e, infine, dell’agitazione di protagonisti e deuteragonisti che tutto vogliono meno che rimanere fuori dai giochi.

Questa confusa rappresentazione sparirebbe, se gli applausi del San Carlo e della Scala, di Napoli e Milano, rendessero un po’ meno inamovibile il diniego di Mattarella. È assai improbabile, e allora bisogna prenderli per quello che, in definitiva, vogliono dire: la speranza del Paese di affrontare il prossimo anno in una cronice di stabilità politica e istituzionale. Senza drammi (né docce) scozzesi.

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