Mezzogiorno, il bilancio fallimentare della Regioni

di Isaia Sales
Giovedì 9 Agosto 2018, 23:05
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Mentre il presidente De Luca annuncia la sua ricandidatura alle prossime elezioni regionali, non si può trascurare il fatto che nel 2020 le Regioni italiane compiranno ben 50 anni. Un tempo storico sufficiente per un bilancio sulla loro utilità e incisività. Per il Sud d’Italia una grande occasione per rispondere alla semplice domanda: la nascita di otto Regioni meridionali è stata in grado di modificare strutturalmente il divario economico con i territori del Centro-Nord? E se ciò non è avvenuto dal punto di vista economico e produttivo, almeno si è attenuato il divario nella dotazione dei servizi (sociali e civili) al centro delle competenze delle nuove istituzioni? 

Anche a questa seconda domanda purtroppo la risposta non è positiva.Il Mezzogiorno non può minimamente essere soddisfatto del suo regionalismo: non c’è nessuna regione meridionale che grazie ai poteri assegnati dal 1970 in poi abbia cambiato radicalmente le condizioni del proprio territorio, incidendo sulle cause del divario sia sul piano economico, che su quello civile e dei servizi. C’è una assoluta simmetria nelle graduatorie: le otto regioni meridionali hanno aumentato in questi 50 anni la distanza con l’economia di quelle settentrionali e al tempo stesso sono agli ultimi posti per quanto riguarda il differenziale nei servizi sanitari e nelle infrastrutture sociali, come i trasporti, la dotazione di asili nido, l’assistenza agli anziani e agli handicappati, i servizi scolastici e quanto altro contribuisca al concetto di civiltà minima. Ciò non vuol dir che il Sud non sia cambiato o che stia peggio di 50 anni fa; vuol dire solo che è cambiato meno di quanto sia cambiata l’altra parte d’Italia che già nel 1980 si trovava in condizioni migliori. Il passaggio delle competenze della Cassa del Mezzogiorno alle Regioni non ha comportato dei risultati positivi e non solo per il calo massiccio delle risorse. Aver suddiviso in otto parti un’unica strategia non ha inciso sulla qualità e sull’intensità dello sviluppo produttivo, anzi; il passaggio, ad esempio, di competenze della sanità dallo Stato centrale alle Regioni ha portato alla formazione di ben 20 sistemi sanitari che alla fine hanno riproposto sul piano della salute quelle differenze che già esistevano sul piano della ricchezza.
Eppure la sensazione che le nuove istituzioni avrebbero comportato un ulteriore divario (al posto di ridurlo) l’aveva immediatamente segnalata lo studioso americano Robert D. Putnam, in due distinti saggi, uno del 1987 (“L’albero e le radici. Il radicamento dell’istituto regionale nel sistema politico italiano”) l’altro nel 1993 (“La tradizione civica nelle Regioni italiane”).
Nel primo studio (dopo tre legislature dall’avvio della riforma regionale nel 1970) Putnam traeva queste conclusioni: “Gli enti regionali hanno reso di più dove è più avanzato il livello di sviluppo socio-economico, maggiore la stabilità sociale. Le differenziazioni nel rendimento istituzionale si legano strettamente a differenze storiche di oltre un secolo prima.” Insomma, le Regioni si stavano limitando ad accompagnare lo sviluppo laddove lo sviluppo già c’era, non lo determinavano e non lo modificavano. Per il Centro-Nord non era una cattiva notizia, per il Sud sì: le Regioni si dimostravano incapaci di invertire la tendenza, tutt’al più si acconciavano al sottosviluppo ma non erano all’altezza di trasformarlo. 
Si può dire, dunque, che con la nascita delle Regioni è iniziata la stagione della deresponsabilizzazione dello Stato centrale verso i suoi territori più arretrati, una stagione che da allora non si è mai concretamente interrotta. Da quando si sono consolidate le Regioni, il Sud conta di meno nella politica italiana. E’ un dato di fatto che non si può ignorare.
Ovviamente, la riforma regionale non era responsabile dei divari che si erano consolidati già prima, ma se l’ente Regione stava fornendo performance meno virtuose in una economia più debole e in una società civile meno strutturata, si arrivava alla conclusione paradossale che la nuova istituzione funzionava peggio laddove di essa in teoria c’era più bisogno e laddove verso di essa si erano manifestate più larghe aspettative. 
Nel secondo saggio lo studioso americano così si esprimeva: “ La riforma regionale ha esasperato, invece che attenuarle, le differenze storiche tra Nord e Sud del paese; ha liberato le regioni più progredite dall’abbraccio soffocante di Roma, consentendo nel frattempo che le piaghe storiche del Sud divenissero purulente.” Il regionalismo si era trasformato in una specie di ratifica del divario e non in uno strumento nuovo per superarlo.
Si poteva fare di più e diversamente? Certo. Ma due errori sono stati fatali alle regioni meridionali. Errori che continuano ancora oggi.
Il primo. Abbandonare totalmente nel Sud la dimensione sovra regionale è stata una scelta deleteria. Si poteva mantenere benissimo un coordinamento permanente tra le otto regioni fin dall’inizio e non lo si è fatto. Ciò ha contribuito a frammentare la questione meridionale in otto questioni territoriali non in grado di creare massa critica di impegno e di attenzione, come invece era avvenuto prima. Un unico Sud aveva ed ha più attrattiva e forza contrattuale di otto diversi Sud. La resistenza dei presidenti delle regioni a costituire uno stabile coordinamento tra di loro è stato l’errore politico più grave di questi 50 anni di regionalismo. Errore che si perpetua ancora oggi. E senza coordinamento permanente ci si è fatti fregare nelle attribuzioni di risorse e nei criteri di riparto da parte delle più attrezzate burocrazie del Centro-Nord.
Il secondo errore è stato quello di sottovalutare l’importanza delle infrastrutture sociali e dei servizi rispetto a fantasiosi e velleitari programmi di sviluppo regionali. E’ un errore strategico, infatti, pensare alle Regioni come strumenti istituzionali per creare sviluppo e non per dotare di servizi adeguati e civili le popolazioni amministrate. Le Regioni che hanno funzionato meglio sono quelle che hanno migliorato i servizi, le peggiori sono state quelle che avevano la pretesa di creare sviluppo economico, in quanto (come Putnam ha dimostrato) si tratta solo di istituzioni di accompagnamento delle iniziative che in questo ambito prendono lo Stato centrale e le imprese private. Dotare i propri territori di ospedali efficienti, di numerosi asili nido, di scuole attrezzate, di trasporti locali diffusi, di assistenza alle fasce più fragili, etc. etc., rientra nelle possibilità delle amministrazioni regionali. E infatti le Regioni del Nord lo hanno fatto e in questo modo hanno trovato la loro dimensione. Quelle del Sud hanno trascurato questo aspetto e hanno fallito. Anche in altre parti d’Europa e del mondo ci sono nazioni differentemente sviluppate, ma ciò non comporta una differenziazione nei servizi. Solo in Italia i territori che sono arretrati sul piano della produzione di ricchezza, lo sono anche sul piano della dotazione di servizi. Si tratta di una precipua competenza regionale che si prova a coprire con fantomatici piani di assunzioni e di sviluppo. Dove non c’è lavoro non vuol dire che automaticamente non ci debbano essere servizi. A questo potevano e possono servire le Regioni meridionali. Non ci vuole molto: basterebbe, ad esempio, che la sanità non venisse più gestita dagli amici politici dei governatori.
 
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