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Il Mattino

Le politiche migratorie ​con i confini degli altri

di Alessandro Campi
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 2 Ottobre 2023, 00:00 - Ultimo agg. : 3 Ottobre, 00:01
5 Minuti di Lettura

Quando in una discussione politica ci si pone dal punto di vista della morale e dell’umanità immediatamente si acquista una condizione di privilegio e vantaggio sull’interlocutore. Qualunque risposta o obiezione venga da quest’ultimo lo espone fatalmente all’accusa di cinismo e immoralità. Il confronto diviene asimmetrico: la politica che si appella ai nobili valori universali contro la politica che difende interessi meschini e particolari.

È un trucco retorico antico ma sempre efficace, come si vede nelle discussioni di queste settimane sull’immigrazione: un processo storico-sociale di lungo periodo che si sbaglia a trattare come un’emergenza stagionale ma che nemmeno può essere affrontato, in una chiave intellettualistica, sul terreno esclusivo dei diritti umani. Ieri, ad esempio, Giuliano Amato ha proposto all’Europa di superare la distinzione tra perseguitati politici, ai quali riconoscere il diritto d’asilo, e rifugiati economici, da respingere allorché entrano illegalmente entro i confini continentali. Anche a coloro che scappano dalla miseria del sottosviluppo deve essere garantita l’accoglienza per dovere di civiltà. Si è incivili se si obietta che una simile scelta, nel segno del diritto umanitario, finirebbe per determinare l’arrivo in Europa di un flusso ingovernabile di masse umane?

L’Italia è in questo momento sul banco degli imputati. Ciò accade paradossalmente proprio mentre gli sbarchi sulle sue coste si sono, da un anno all’altro, più che raddoppiati. Non potendola accusare di aver blindato i suoi confini, le si imputa di non fare abbastanza nel soccorso ai naufraghi (falso), di ostacolare le azioni di soccorso operate in mare dalle organizzazioni non governative (falso, si chiede solo maggior coordinamento operativo tra Ong e autorità statali), di non rispettare le procedure europee in materia di identificazione degli immigrati e di doveri di prima accoglienza (lo stesso Mattarella ha definito preistorici gli accordi di Dublino) e soprattutto di utilizzare la paura per gli stranieri come arma di propaganda elettorale e come merce di scambio nei rapporti tra i partiti attualmente al governo.

Quest’ultimo è l’argomento in assoluto più ipocrita, dal momento che esattamente la stessa cosa accade anche altrove, quale che sia il colore politico dei governi. La Meloni, si dice, deve vedersela con la concorrenza a destra del suo alleato Salvini, che spinge per chiudere i porti e affrontare l’immigrazione con misure di polizia. Bene, Scholz in Germania deve vedersela con la concorrenza a sinistra dei suoi alleati Verdi, che essendo legati a doppio filo (ideologico ed economico) con le organizzazioni non governative premono perché il loro ruolo di attori extra-statali venga ufficialmente rafforzato nel nuovo Patto Ue per le Migrazioni attualmente in discussione.

Tra le due posizioni non c’è, come si vorrebbe far credere, una differenza morale o di valore, l’egoismo nazionalistico della destra italiana contro lo spirito di accoglienza della sinistra tedesca, ma banalmente politica, che nasce da legittimi e divergenti interessi. Alla Germania, per ovvie ragioni, non interessa il confine mediterraneo dell’Europa, dove oggi esercita la sua vocazione missionaria così intrisa di atavici sensi di colpa, ma quello terrestre orientale, che proprio grazie alla pressione della Germania sull’Europa è stato messo sotto controllo grazie all’accordo sottoscritto tra Bruxelles e Ankara nel marzo 2016, esattamente come l’Italia ha proposto di fare sempre all’Europa con la Tunisia.

All’epoca dell’intesa con la Turchia c’era la democristiana Merkel, che temeva flussi incontrollati di profughi dalla Siria. Ma oggi il socialdemocratico Scholz, preoccupato a sua volta dai troppo arrivi nel suo Paese di immigrati illegali dall’Est Europa, non ci pensa due volte a rafforzare la vigilanza militare al confine con la Polonia, l’Austria e la Repubblica Ceca. Ammettiamolo, la battuta dell’altro giorno di Giorgia Meloni rivolta proprio al Cancelliere tedesco, “Non si può fare solidarietà con i confini degli altri”, sarà stata poco diplomatica, ma almeno è valsa a mettere a nudo questa politica del doppio standard: applicare agli altri criteri di giudizi che se utilizzati per sé stessi dovrebbero spingere, quanto meno, a una maggiore prudenza.

Si dice ancora: il governo populista italiano, come i suoi omologhi polacchi e ungheresi, usa la retorica delle frontiere chiuse perché ha capito che così si possono lucrare facili consensi. Ma anche questa è davvero una verità di comodo. Dalla Francia all’Olanda, dalla Spagna alla Germania, dalla Danimarca alla Finlandia, tutti i governi europei, al di là dei discorsi ufficiali edificanti, agiscono ormai in modo sempre più restrittivo nei confronti dell’immigrazione proprio guardando ai riflessi potenzialmente negativi del fenomeno sulle rispettive opinioni pubbliche e sugli equilibri delle loro società. Nessuno, tra leader e partiti, vuole apparire tollerante o troppo permissivo nel timore, persino comprensibile, di perdere voti.

Ma questo irrigidimento comune in Europa non è solo una meschina questione elettorale. C’è un problema più grande, che riguarda l’immigrazione vista in prospettiva storica futura. Il caso della Francia è da questo punto di vista esemplare. Paese di antica immigrazione, fautore di una politica d’accoglienza che in nome dei valori repubblicani ha sempre puntato a trasformare rapidamente gli stranieri in cittadini, si è trovato all’improvviso a fare i conti con il proliferare al suo interno di comunità etniche chiuse e con crescenti conflitti sociali.

L’integrazione civica guidata da uno Stato agnostico e secolare, assai generoso dal punto di  vista delle politiche sociali, non ha evidentemente funzionato con quegli immigrati che anche dopo due generazioni si scoprono legati alle loro appartenenze culturali e religiose originarie.

Il malcontento, spesso violento, dei nuovi francesi di passaporto frustrati nel loro desiderio di ascesa sociale e spesso abbandonati senza lavoro nei loro ghetti metropolitani si è così sommato al malcontento dei vecchi francesi di cultura che sempre più avvertono il sentimento di sentirsi stranieri in casa propria.

Insomma, si comincia a temere, non solo in Francia, che possa esistere per le società europee qualcosa come un punto di rottura legato proprio ad una immigrazione destinata a crescere nei numeri nei prossimi decenni e a formule di integrazione – dall’assimilazionismo su base individualistica al multiculturalismo fondato sui diritti delle minoranze – che sin qui si sono dimostrate largamente fallimentari.

Alzare muri, oltre che impossibile e immorale, non sarebbe una soluzione politica ragionevole. Ma il problema di una pressione migratoria dall’esterno che deve essere al tempo stesso contenuta e guidata, cioè ridotta nei numeri, ricondotta in un alveo di legalità, gestita secondo standard etico-giuridici rigorosi, affrontata nelle sue cause e origini (essenzialmente la povertà strutturale di una parte del mondo) e, soprattutto, resa compatibile con la struttura sociale e culturale che storicamente regge gli Stati europei non è un’invenzione dei populisti, ma la sfida che l’intera Europa ha dinnanzi. Tutto il resto, sono belle parole, toccanti ma inutili.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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