La sana vergogna di chi ama Napoli

di Titti Marrone
Giovedì 23 Gennaio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:05
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Un po’ di mesi fa il mio amore per Napoli mi ha portato ad avere una tipica reazione da orgoglio ferito quando, al telefono, alcuni conoscenti che vivono all’estero hanno cancellato il loro viaggio a Napoli dicendo: «Non ce la sentiamo di venire lì, dove i bambini hanno paura perché sparano davanti alle loro scuole». Si riferivano all’agguato a poca distanza dalla scuola di San Giovanni a Teduccio, sotto gli occhi dei piccoli scolari e in particolare di quelli di un piccolo di tre anni, scappato via lasciando il suo zainetto con sopra Spiderman. Alle loro parole ho reagito esattamente come nei primi anni Ottanta faceva con gli schizzinosi parenti “forestieri“ mia madre, eccelsa maestra elementare a contatto con bambini di quartieri popolari, che in simili occasioni s’industriava a smontare quella che chiamava «una stupida generalizzazione».

Certo allora c’era stato da poco il terremoto, e se in alcune zone la città ne porta i segni ancora oggi, figuriamoci allora. Ma le immagini catastrofiste sulla città evocate a quei tempi erano di sicuro un’esagerazione. Bene faceva mia madre a confutarla, e credo di aver fatto bene anch’io a rintuzzare le motivazioni sentite al telefono. 

Però, però. Se a distanza di tanto tempo quel ritornello si ripete, è un campanello d’allarme che risuona. Non più per l’infamia di una cattiva reputazione legata ai cumuli maleodoranti di rifiuti ciclicamente disseminati nelle strade pure invase dai turisti. La «carta sporca» è anche il modo di far stare nel mondo i bambini di Napoli. Non tutti, beninteso, poiché non bisogna certo concludere che i bambini di Napoli vivano come quelli africani: generalizzazioni così sono buone tutt’al più per titoli ad effetto, o per inquietudini improbabili come quella esibita dai miei parenti. 

Ma qui c’è di mezzo un sentimento di vergogna che ricade sulla nostra responsabilità adulta: è per l’ambito di esistenza che abbiamo costruito per loro. Quest’episodio mi veniva in mente nel leggere quanto scritto l’altro giorno da Rossella Paliotto e ieri dal direttore del Mattino Federico Monga a proposito della misura dell’amore dei napoletani per la città. E mi suggeriva che questa misura deve assolutamente tararsi sul sentimento della vergogna. Non sull’orgoglio pregiudiziale, non sulla difesa a spada tratta di una bellezza innegabile, quanto piuttosto sulla necessità di vergognarci di noi stessi. Perché la bellezza non solo non assolve chi l’ha ricevuta in eredità, ma al contrario condanna chi ci vive in mezzo offendendola, sprecandola, mortificandola, mostrando di non saperla valorizzare e nemmeno difendere. Il sentimento della vergogna dev’essere pratica pubblica, deve portare a riconoscere le responsabilità collettive e personali, le incapacità amministrative e quelle politiche, senza aver paura di «lavare i panni sporchi» veicolando immagini negative all’esterno.

Come si potrebbe nascondere, del resto, l’assoluto disastro del sistema dei trasporti giustamente evocato dal direttore di Capodimonte Sylvain Bellenger, che inchioda la città a tempi e modalità inaccettabili? Né ci si ferma solo ai trasporti: l’elenco è lunghissimo ma non va sciorinato per invocare aiuti dall’esterno e tanto meno per intonare lamenti sui molti aspetti di un degrado di cui siamo responsabili anche per aver dato fiducia a chi amministra la città con risultati a dir poco fallimentari. 

Senza il sentimento della vergogna inteso come assunzione di responsabilità, continuare a sbandierare l’amore per Napoli, con l’annesso corollario dell’orgoglio napoletano, serve solo a trasformare la realtà che è sotto gli occhi di tutti in un sopramondo sentimentale, in un’architettura di emozioni destinata a accecarci o a far baluginare l’immagine illusoria di una sorta di seconda città che esiste solo nei desideri.
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