Anti camorra: il vescovo sa cosa fare, la politica no

di Francesco Barbagallo
Mercoledì 5 Maggio 2021, 00:02 - Ultimo agg. 07:07
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In un tempo dominato dal Covid, è molto importante che l’arcivescovo Battaglia abbia posto, con grande forza religiosa ed etico-politica, la drammatica centralità della camorra a Napoli. E abbia chiesto «a tutti i preti e a tutti i cristiani chiarezza di vita e coraggio anche fino al martirio». Con papa Francesco e ora col vescovo di Napoli la parte migliore della Chiesa pare aver preso il posto abbandonato, già dal secolo passato, dalla parte migliore della Politica nella difesa dei valori etici e nella lotta aperta e netta al potere e alle attività crescenti della criminalità.

L’arcivescovo nell’intervista al Mattino denuncia anche la gravità della «divisione che ha caratterizzato il mondo degli artisti, degli intellettuali, della società civile», che rischia di fare il gioco della criminalità, sottovalutando il suo potere crescente nel controllo del territorio a Napoli e in molta parte del Sud. La camorra gestisce sempre più numerose imprese legali grazie agli enormi proventi delle sue attività criminali. E quel che resta, ed è molto poco, del sistema istituzionale politico-amministrativo fa finta di non vedere quanto non è in grado da tempo di affrontare e combattere. Per cui al più alto esponente della Chiesa napoletana non resta che denunciare «l’assenza delle istituzioni, troppo spesso distratte».

Monsignor Battaglia viene dalla Calabria. Quindi sa bene che «ogni mafia trova i suoi codici di potere e i suoi simboli di dominio del territorio». 

Non è casuale quindi il suo aperto schieramento con il prefetto, il questore, il procuratore della Repubblica, che hanno «voluto dire chiaramente alla città che Napoli non è zona franca, non è una città in cui chiunque può celebrare la propria visione della vita e della morte senza confrontarsi con i valori della legalità e della giustizia».

La vergognosa proliferazione di altarini e murales in onore di delinquenti ammazzati nel corso delle loro imprese viene condannato senza sconti e ipocrisie.

Non è culto dei morti, è idolatria. E lo afferma con tutta la sua autorità religiosa ed esperienza di vita un vescovo che non ha timore di chiedere ai cristiani coraggio fino al martirio. «È idolatrico ogni messaggio di morte, ogni segno che calpesta l’uomo, ogni simbolo posto per marcare un dominio. E a questi simboli nessuno deve chinarsi. Ci si inginocchia solo dinanzi a Dio e a chi soffre, il resto è idolatria».

Sono parole dure come pietre. È bene che si incidano nella coscienza dei napoletani, e di ogni italiano. Le nostre mafie non sono solo un fenomeno di lunga portata storica. Sono soprattutto organizzazioni efficienti, che hanno saputo adeguarsi ai tempi e porsi al centro del mondo nuovo che sta navigando rapidamente dai processi della globalizzazione ai nuovi lidi delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale. Sono 50 anni che la camorra ha dismesso i vecchi abiti della guapparia per diventare protagonista di primo piano nel mondo criminale insieme alla ’ndrangheta e a Cosa nostra.

L’arcivescovo ha dimostrato di sapere bene di cosa si parla. Non altrettanto può dirsi di quel che resta del sistema politico amministrativo, e nemmeno di una larga parte della cosiddetta “società civile”, che spesso fornisce consulenze e fa affari di vario genere con una criminalità che occupa spazi sempre più ampi nell’economia e nella finanza. 

Come scrisse inascoltato, un quarto di secolo fa, il grande sociologo Manuel Castells: «L’economia criminale globale sarà un fattore fondamentale nel XXI secolo, e la sua influenza economica, politica e culturale pervaderà tutte le sfere della vita. Il punto non è stabilire se le nostre società saranno in grado di eliminare le reti criminali, ma capire se le reti criminali finiranno o meno per controllare una parte sostanziale della nostra economia, delle nostre istituzioni e della nostra vita quotidiana».

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