La deriva trash
dell'arredo urbano

di Raffaele Aragona
Giovedì 14 Febbraio 2019, 00:00
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L’arredo urbano nasce nel Medioevo e si prolunga fino al Cinquecento con quello che l’architettura dei palazzi privati offriva ai cittadini all’esterno degli edifici: una serie di panchine a disposizione del passante, una fontana offerta alla cartolina della città, un orologio che segnava le ore a beneficio dei cittadini. A Napoli, l’ultimo esempio di vero e proprio arredo urbano offerto da privati, piaccia o non piaccia, è quello firmato da Nicola Pagliara nello spazio antistante alla sede centrale del Banco di Napoli in via Toledo. Se l’Istituto, con un gesto buono, nel suo arretrarsi rispetto alla strada, pensò di attribuire alla città una parte di sé, nel seguito l’architetto provvide a occupare quello spazio per evitare la continua sosta di barboni e ambulanti.

Era certamente bello quando l’arredo urbano nasceva in tal modo e i cittadini ne potevano usufruire liberamente e in modo acconcio; quando i portoni aperti lasciavano intravedere giardini e fontane. Ora non si tratta più di arredo integrato allo spazio urbano essendo molto spesso posticcio e in contrasto stridente con esso. Oggi è un dilagare di aggiunte e intrusioni che riescono solitamente cattive e che, in ogni caso, non sono mai integrate all’architettura del luogo; è una deriva dell’arredo che avviene in special modo a Napoli e nei suoi diversi quartieri. Senza dire delle installazioni occasionali, quelle, ad esempio, delle luminarie natalizie rimaste ancora presenti in vari luoghi (seppure spente) o quelle di questi giorni che decorano – a volte indecorosamente – le nostre strade riempiendole di rossi cuori trafitti per la festa di San Valentino.

Ogni occasione è diventata buona per inserire elementi estranei che difficilmente riescono a convivere con essa, a meno che non vengano progettati da chi se ne intende e realizzati con il consenso di chi a ciò è delegato: ci si riferisce a un assessorato al decoro urbano, un assessorato ormai divenuto fantasma. In sua assenza le iniziative sono lasciate quasi libere e necessità economiche impongono l’intervento incontrollato di sponsor o addirittura di singoli professionisti che reclamizzano le proprie arti e i propri mestieri. Se qualcuno tende a dire che si tratta di un’iniziativa che ha ottenuto tutti i permessi e per la quale sono stati versati i relativi contributi, ciò non significa che non esista motivo per dissentire e invocare un’estetica e un decoro inesistenti. Se qualcuno si lamenta che Chiaia non merita lo stile grossolano mostrato da certe recenti luminarie, è pur vero che in altre parti della città ne sono installate altre forse meno invasive e più intonate al quartiere, come accade per la Pignasecca dove gli impianti tendono ad abbellire e valorizzare il popolare quartiere; essi riescono anche a sopperire alla scarsa illuminazione stradale e a rivalutare il quartiere ponendo in evidenza i suoi palazzi storici e le antiche tradizioni del quartiere.

Il contesto è sempre importante nell’àmbito di un intervento urbano: è evidente come il totem pubblicitario che si vorrebbe realizzare il via Marina, per giunta proprio dinanzi alla Caserma di Cavalleria Borbonica del Vanvitelli, è qualcosa che non s’ha da fare, così come la casetta installata per la Befana in piazza Dante proprio accosto alla statua era qualcosa che ha gridato vendetta, così così come non può essere ben vista una luminaria di cattivo gusto in quello che si vorrebbe ancóra considerare il salotto buono della città. 
Chi scrive ha sempre promosso il concetto di “disarredo” (un neologismo per il quale si auspica un felice séguito) sostenendo che sia solitamente meglio togliere che aggiungere. Non è soltanto quello che è comunemente definito “arredo” a guastare l’immagine della città ma tutta una serie di elementi inutilmente invasivi e del tutto stonati con il suo carattere. Un arredo decoroso deve meritare una giusta considerazione nella speranza che riesca a ricreare la bellezza di una città per tanti versi oscurata.
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