Battenti, un giorno di sangue e penitenze

Battenti, un giorno di sangue e penitenze
di Marco Ciriello
Domenica 27 Agosto 2017, 23:55
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Nelle remote adolescenze del tempo si perde il rito, dal doppio accento, dove il Cristianesimo si accavalla al paganesimo, divenendo teatro. È quello che succede a Guardia Sanframondi per i Riti settennali di Penitenza. Almeno ordinata e collettiva, messa in scena e sciolta lungo le vie del paese, ai tempi del jihad.

Schegge di sincretismo e passione si mischiano tra liturgia e scenografia, e l’effetto è un po’ “Brancaleone” di Mario Monicelli, un po’ “The Passion of the Christ” di Mel Gibson, con un sottofondo di Ora pro nobis e odi alla Madonna Assunta sovrastate dai «Ricomponetevi» urlati dai kapò, delle due processioni – una di Penitenza e una di Comunione – alle comparse che, spazientite, escono dai ranghi e soprattutto dai ruoli. Dopo di loro ci sono i battenti. Tutti sono lì per vederli, il resto è contorno nonostante i grandi sforzi. L’attesa lungo le strade è da Giro d’Italia, ma al posto di Vincenzo Nibali, dietro le curve, spunteranno gli incappucciati che sanguineranno, lavando le colpe, mischiando il sangue buono e quello pazzo, per scongiurare la siccità – che l’acqua piovana possa consentire il compiersi stagionale del ciclo agrario, come spiega Lombardi Satriani –. È una fabbrica di sangue e dolore, Guardia Sanframondi, anche se meno cruenta di come si immagina, sotto gli occhi triplicati – da Grande Fratello – di una marea di persone che parte in gita per toccare con mano i disciplinati figli dei figli dei figli di Raniero Fasani, che a Perugia nel maggio del 1260 diede il via al rito dell’espiazione pubblica, fornendo uno spettacolo perfetto per i telefonini di ogni ordine e grado, per le macchine da presa e le telecamerine da due dita, ottocento e fischia anni dopo.


Al realismo coatto del sangue, alla trasformazione dei battenti in sacerdoti che maneggiando il proprio dolore – colpendosi il petto con tamponi appuntiti da trentatré spilli – si aggiunge la rappresentazione della Storia, messa in fila dai quattro rioni del paese: Croce, Portella, Fontanella e Piazza. È un gioco di vita e morte, che però sfugge di mano, persino al vescovo, che si trova a recitare una omelia, mentre dietro di lui c’è un set pasoliniano, una sorta di “Heaven Academy” dove madri addestrano angeli e imperatori, e mogli accudiscono – più o meno blasfemamente – una schiera di sosia di Cristo di ogni ordine, grado e soprattutto età. Diventa difficile controllare una piazza del genere, non basta ammonire se ci si prepara alla messa in scena. Il risultato è slabbrato, fatiscente, ma con punte di commozione: almeno a guardare gli occhi delle anziane che si dispongono a rendersi testimoni dei testimonial della Bibbia e/o Storia del mondo, con correndo di battenti, disciplinati, e Madonne bambine. C’è un prima e un dopo, il prima è letteratura visuale – scritta da sceneggiatori di provincia –, e il dopo è concretismo lirico che discende dall’antico, portandosi dietro quello che sembra inutile al nostro tempo, ma con un carico poetico innegabile. L’attacco è «Con fede e coraggio, fratelli, in nome dell’Assunta battetevi!», una chiamata alla carica per i penitenti. Partono le processioni e si comincia a battersi per versare il sangue, mischiato al vino, servito da hostess e assistenti almodovariani.


La missione è raggiungere e servire la Madonna, incontrarla e ossequiarla, facendo penitenza, e poi spogliandosi – a sera – portarla in spalla di nuovo in chiesa, in una circolarità geometrica, ripercorrendo il ciclo delle cose, del mondo, della vita. A guardare i corpi dei penitenti, le loro pance prominenti, le loro mani che stringono crocefisso e tampone, le loro braccia, la loro pelle scura di sole, e le scarpe da tennis dei più giovani, i sandali di quelli più in là con gli anni, insomma, le parti che spuntano da sotto i camicioni bianchi, viene da tracciare un profilo poco borghese, a dispetto dei racconti. Chi è devoto sembra appartenere alla classe operaia, nel giochino che fanno tutti scrutando gli occhi che guardano da dietro i cappucci. Giovani e maturi si mescolano, quest’anno se ne contano ottocento che si appoggiano di autorità sul passato, sperando di darsi un futuro, usano il corpo, la carne – martirizzata – come chiave di speranza, e lo fanno in modo violentemente arcaico in mezzo a una folla indisciplinata, distratta, curiosa solo del sangue e dell’eccitazione che si porta dietro, come a un incontro di boxe, tutto il resto è scenografia. Si aspetta l’incontro, l’investitura adrenalinica. In questa catena d’assunzioni – in cielo e soprattutto in terra – ci sono cortocircuiti orwelliani, con le anziane lontane della strada che seguono in tivù il rito, aggiornando i passanti, che cercano varchi per fotografare gli incappucciati, sulle posizioni delle processioni. Intanto, in quella di Comunione, si apparecchia la Storia su un’unica linea, dove i fascisti si mescolano ai pretoriani – intuizione de “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini –, i faraoni agli schiavi, i santi ai peccatori, i soldati alle spose, in una Cinecittà in movimento. Il risultato è una congiuntura immaginativa servita per l’Homo Camera, intrattenimento prima del vero spettacolo. Finzione prima del realismo. I Misteri della fede trovano applicazione pratica, rappresentazione liquida: miracoli e apparizioni confluiscono in rivisitazioni posticce, enfatizzate, dove le facce sono giuste e i gesti sbagliati, dove mancando la lingua il mezzo diventa ancora una volta il corpo, addobbato col costume giusto in un tempo sospeso attraversa il corteo con i problemi di oggi: l’acqua, la pizza, il bimbo che piange e vuole andarsene, una cerimonia ossimorica dove si amministra la fede, in quadri, in attesa della vera dimostrazione, lo sfregio di sé in funzione comunitaria, la dimostrazione reale d’appartenenza. Il suono è ferroso, quello dei disciplinati che si percuotono le spalle con cordoni di ferro, pendagli che nel movimento di scudiscio fanno suonare l’avviso di battitura, è la preparazione al silenzio del sangue, che scava un tunnel nella distrazione collettiva, in fondo è il momento clou.


È l’esperienza delle cose che si guadagna spazio, e tra i pochi veramente toccati dal “sacrificio” dei battenti: genera preghiera, assunzione di mistero, c’è chi mormora dei grazie, chi piange in silenzio, chi prega; è questo il punto, tutto è servito per arrivare a fare di quei corpi dei mezzi di transizione, separano la vita e la morte, il crinale sul quale stiamo: atei e non.
I lavoratori manuali dello spirito, attraverso il sacrificio, si declinano, diventano sintesi ed equilibro, qualcuno con più impegno, altri blandamente, ma sono lì, col loro sangue a ribadire una posizione assolutamente chiara, che fa invidia, tanto è radicata. Che lavora nel senso, nel simbolo, forse anche solo per abitudine di specie, ma intanto lo fa, si muove in una certezza, le si aggrappa, mentre il resto si perde. Visceralmente calpesta i dubbi dell’Occidente e crede. Si batte, si pente e crede.




 
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