La camorra, la Chiesa, le parole da dire e i gesti da fare

di Pietro Perone
Sabato 16 Ottobre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 12:01
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Contano le parole, soprattutto se provano a squarciare i silenzi, ma è a volte un gesto a innescare i cambiamenti. Gesti forti, inaspettati e per questo dirompenti, quelli che oggi mancano nella lotta alla camorra. Ha fatto bene don Mimmo Battaglia, vescovo di Napoli, a tentare di spezzare il mutismo assordante di una città che assiste inerme alla mattanza dei suoi figli.

Quelli che vede circolare nei rioni di periferia o a Mergellina nei giorni di festa a bordo di auto di lusso con qualche stereo un po’ troppo ad alto volume. O che vede agli incroci, di notte, su potenti moto e spesso senza casco. Un gesto di disapprovazione e un’alzata di spalle, poi ognuno per la propria strada come se fossimo cittadini di due stati diversi, tanto da restare incuranti quando poi quel volto lo vediamo in tv attraverso una foto segnaletica e il corpo ricoperto da un lenzuolo.

È questa la Napoli indifferente che don Mimmo vuole provare a risvegliare, smuovendo le coscienze e sperando in una ribellione. Prima di lui, però, altri hanno provato purtroppo senza successo. Basta tornare indietro con la memoria al dicembre del 2017 quando il cardinale Sepe, dopo due diversi omicidi il cui triste bilancio fu di tre morti, scrisse una lettera appello per chiedere ai ragazzi di camorra di deporre i coltelli: «Siate coraggiosi – disse – in ogni chiesa verrà messo un cestino in cui potrete consegnare armi e fendenti». Due anni dopo, l’8 dicembre, prima in un’intervista al nostro giornale e poi nel Duomo un altro appello: «Deponete le armi».

Parole che non hanno sortito effetto, così come quelle fortissime di papa Francesco pronunciate sei anni fa tra le Vele di Scampia e passate alla storia per la frase «la camorra spuzza». Fu quella, davanti ai palazzoni rappresentati in questi decenni come il “male assoluto”, il disperato appello a costruire un futuro migliore: «Cari napoletani, non lasciatevi rubare la speranza. Non cedete alle lusinghe di facili guadagni o di redditi disonesti. Reagite con fermezza alle organizzazioni che sfruttano e corrompono i giovani, i poveri e i deboli, con il cinico commercio della droga e altri crimini».

Parole che andrebbero ripetute quotidianamente ma che da sole non bastano perché servono anche gesti, azioni, sfide. C’è stato infatti un momento in cui la lotta alle mafie ha toccato il suo apice, producendo eventi dirompenti, come la legislazione sul pentitismo entrata in vigore nel 1982. Nello stesso anno, il vescovo di Acerra, monsignor Antonio Riboldi, fu protagonista di un gesto destinato a cambiare il corso della storia. Erano riuniti gli studenti del liceo scientifico dopo l’ennesimo raid di camorra, quella volta contro un avvocato. Quei ragazzi avrebbero voluto reagire allo strapotere ormai soffocante dei clan in un’epoca in cui il fenomeno camorra veniva sottovalutato da ampi settori della politica e pezzi della magistratura. Un incontro era stato organizzato qualche giorno prima anche a Palermo, ma in Campania, come in Sicilia, nessuno sapeva cosa fare. Fu il vescovo a indicare la strada: «Andiamo a Ottaviano, regno del “capo dei capi”, Raffaele Cutolo». Non in Curia, non in qualche parrocchia, non al chiuso di una sala, ma in piazza. Qualche giorno dopo si svolse la prima un’assemblea nel cortile di una scuola e poi una marcia con in testa oltre a don Riboldi e al vescovo di Nola, Costanzo, Antonio Bassolino all’epoca segretario regionale del Pci, e Luciano Lama, leader dell’allora potente Cgil.

“A casa” del padrino, con i cecchini sui tetti nel tentativo di proteggere i ragazzi che marciavano, il palco piazzato davanti al Municipio, a pochi passi dal Circolo dell’Unione ritrovo di notabili, per gridare a viso aperto “no alla camorra”. Fu quello l’inizio di un movimento che attraversò l’Italia, capace di far arrivare nella villa comunale di Napoli, città che anche all’epoca partecipava poco rispetto alla provincia, centomila giovani provenienti da tutta Italia.
Sono trascorsi trentanove anni da allora e tutto è cambiato: non ci sono più i partiti di un tempo e neanche la Cgil è quella di Lama.

La Chiesa, però, è sempre lì e i suoi rappresentanti provano a squarciare ancora i nuovi silenzi. Ma oggi, come allora, servono gesti, a Ponticelli come a Pianura, a Caivano come a Torre Annunziata. Riaperte le scuole dopo questi terribili mesi di vita sospesa, sono quelle i principali luoghi in cui provare a smuovere le coscienze chiedendo ai ragazzi di essere protagonisti di una nuova stagione di riscatto. Ecco perché l’appello di Battaglia, come di altri vescovi da anni in trincea devono diventare materia di studio, quella che un tempo veniva definita la “piattaforma” di assemblee, incontri, dibattiti. Gli stessi social, che nell’82 mai nessuno avrebbe immaginato, possono diventare formidabili strumenti per diffondere la cultura dell’anti mafia che da un po’ di anni non è più al centro del vivere civile.

Sono in arrivo i soldi del Recovery, risorse che da queste parti già rappresentano la grande torta delle organizzazioni criminali, così come furono i finanziamenti del dopo terremoto. Ora è il momento di alzare argini, di denunciare le collusioni, di fare i nomi di chi fa affari con i boss di Secondigliano o di Ponticelli abitando semmai in via Orazio o a piazza Vanvitelli. È in gioco il futuro di chi oggi è tra i banchi e ha ragione don Mimmo quando dice “i ragazzi e i giovani di Napoli non possono essere destinatari passivi di un cambiamento ma devono divenirne i protagonisti”. Ecco perché bisogna tornare in strada come fece don Riboldi che i camorristi li sfidava nei loro feudi. Anche la Chiesa deve pero’ tornare a fare in pieno la propria parte associando gesti alle parole. «I mafiosi - disse il Papa - non sono in comunione con Dio: sono scomunicati». Quanti funerali di camorristi a Napoli e provincia sono stati vietati, ridotti alla “liturgia della parola” come indicato dalla Cei? E quante processioni negli ultimi tempi hanno reso omaggio al padrino di turno, quei famosi inchini che puntualmente spopolano su Tik-Tok? E infine quante assoluzioni sono state impartite nei confessionali ai criminali nonostante il cardinale Sepe nel ‘92 diede ordine ai parroci di non fare entrare in chiesa gli uomini dei clan?

Serrare i ranghi in ogni settore della società, riscoprire il valore della mobilitazione anche di piazza, richiamare alle proprie responsabilità chi da troppo tempo è tornato a sottovalutare il fenomeno mafioso. Resta questo, forse, il vademecum della lotta alla Piovra, ieri come oggi da mettere al centro dell’azione di ognuno. 

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