Colpire chi arma i bambini è la priorità

di Leandro Del Gaudio
Venerdì 1 Ottobre 2021, 08:30
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In queste ore c’è chi sta fabbricando in un sottoscala una bomba artigianale da scagliare dall’altra parte della strada, tanto per replicare all’attentato subito pochi giorni fa. Poi c’è chi sta selezionando i proiettili per una nuova “stesa”, da consumare alla luce del sole e davanti a tutti, tanto per definire il perimetro della propria leadership sul territorio o solo per impressionare i nemici di turno, nella gestione per le piazze di spaccio. E c’è chi custodisce mitra - Uzi e Kalashnikov i più ambiti -, quelli che vomitano colpi a ripetizione in pochi secondi, proprio come si vede nei film o nei notiziari dai fronti di guerra. Solo che siamo a Napoli, Italia, Europa. E tutto ciò accade quasi ogni giorno, in una città dove le forze dell’ordine non stanno certo a guardare: oltre quattrocento sequestri di armi da guerra e proiettili nell’ultimo anno, secondo il bilancio di polizia e carabinieri, che dimostrano che da queste parti il contrasto al crimine raggiunge picchi di eccellenza.

Nessuno incrocia le braccia, non c’è assuefazione o rassegnazione. Eppure, nella città da sempre battuta da venti di guerra, teatro di decine di potenziali faide rionali pronte ad esplodere, si avverte l’esigenza di tenere sempre più alto il livello del contrasto al crimine organizzato. A partire da un principio che, nelle sue linee essenziali, appare addirittura banale: bisogna disarmare i clan. Troppe armi da guerra restano a terra, sono a disposizione dei due cartelli che si contendono il territorio (Alleanza di Secondigliano e clan Mazzarella) e che sovrintendono anche episodi apparentemente periferici. Inevitabile, a questo punto una domanda: è possibile immaginare un’indagine di sistema sul fenomeno armi? È possibile ragionare su una strategia di aggressione agli arsenali della camorra? 

Domande che nascono dalla comprensione della complessità del fenomeno camorristico, ma anche dalla percezione di pericolo vissuta dall’opinione pubblica cittadina. Meno omicidi, ma tanti agguati: stese, bombe, reazioni sempre più violente nei confronti delle forze dell’ordine, spesso da parte di minori che rischiano poco sotto il profilo delle condanne e possono contare su rifornimenti vivi, sempre attuali. Esattamente come avviene sui fronti di guerra. Quanto basta a tenere in piedi una domanda, che - è la speranza di questo giornale - possa spingere a portare avanti un’indagine di sistema: chi sono gli armieri dei clan? Chi rifornisce gli arsenali di due cartelli che dagli anni Novanta si contendono racket e droga? Come arrivano le armi da queste parti? 

Stando a quanto emerso finora, grazie alle indagini della Procura guidata da Gianni Melillo, ci sono alcuni punti fermi. Proviamo a riassumerli: in genere, le armi da guerra arrivano nella nostra area metropolitana dall’area balcanica o dall’Est europeo (come raccontano recenti verifiche processuali a carico dei Gionta di Torre Annunziata, altra zona di guerra), o dall’Iran.

Sbarcano nei porti adriatici, raggiungono Napoli tramite autotreni o auto preparate a questo tipo di carico, in alcuni casi grazie alla mediazione di soggetti legati alla ‘Ndrangheta calabrese. Altro punto fermo riguarda i faccendieri che vendono fucili e mitragliatori a boss e killer nostrani. Non si tratta di soggetti organici al malaffare locale, ma di imprenditori del crimine, broker che si muovono sulle rotte che un tempo furono del contrabbando, dei falsi trapani (i «Bosch» fasulli), e che conoscono le esigenze dei casertani, dei vesuviani, dei napoletani. Pochi mediatori, in grado di foraggiare un’intera area metropolitana, capaci di sostenere le esigenze di un esercito di centinaia di affiliati perennemente a rischio faida. 

Ma restiamo sempre a quanto raccolto fino a questo momento dal nostro giornale, anche sulla scorta della relazione semestrale della Dia, guidata da un anno da un poliziotto del calibro di Maurizio Vallone (ex capocentro a Gianturco ed ex capo della Mobile) che non a caso fa esplicito riferimento all’emergenza attuale: si parla di eccessiva profiferazione di armi da guerra a Napoli. E non è l’unico sos, a giudicare anche dalle strategie messe in campo in questi mesi dalla Prefettura. Nel giorno del suo saluto ai napoletani, è stato il prefetto Marco Valentini a ribadire l’importanza di non sottovalutare il fenomeno del mercato di pistole, fucili e munizioni nella nostra area. All’inizio del suo mandato in Prefettura, aveva espresso la sua preoccupazione per il caso Napoli, mentre ieri ha ricordato l’importanza di istituire un osservatorio sulle armi. Già, un osservatorio. Un modo per andare al di là della casistica, al di là del sequestro estemporaneo, oltre il bilancio quotidiano da offrire agli archivi. Chiaro l’intento della strategia del Viminale in città: provare a capire da dove arrivano, chi le porta, chi sono i signori della guerra cittadina.

Quanto basta a ribadire un principio: serve un’indagine di sistema, che faccia leva sul racconto delle decine di collaboratori di giustizia riconosciuti dal Ministero e sulla capacità dei mezzi investigativi odierni di tracciare spostamenti di uomini e mezzi in giro per il mondo. Possibile partire da un’intuizione di fondo: al di là del contrasto sanguinario tra boss vecchi e nuovi, i broker della guerra sono sempre gli stessi. Pochi, non affiliati a questa o quella organizzazione, ma in grado di assicurare a tutti i propri rifornimenti. Quanto basta a puntare in alto, con il solo obiettivo possibile per una città che fa i conti con l’ennesima bomba esplosa in un condominio popolare: bloccare il traffico più pericoloso, quello che consegna a ragazzini di undici anni (puntualmente intercettati dalla Dda di Napoli) pistole da “scarrellare”, in attesa della prossima vendetta di sangue. 

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