La nostra sfida alle teste girate

di Vittorio Del Tufo
Mercoledì 13 Ottobre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Ieri una voce si è alzata, finalmente forte e chiara, per dare la sveglia a tutti: salviamo i ragazzi di Napoli. Salviamo da un destino di morte, o di galera, i ragazzi delle periferie sventrate che vengono uccisi o uccidono, spesso, per pochi euro, o per guadagnarsi un posto nell’olimpo malato dei clan. Salviamoli dalla camorra, dal malaffare e dalla «crudeltà di coloro che hanno dimenticato di essere umani», ma anche dall’indifferenza di quanti «si voltano dall’altra parte» e dalla «scarsa attenzione della politica, nazionale e locale, che pare essersi abituata al sangue versato in terra partenopea, considerandola alla stregua di un paese in guerra».

Proprio per rompere il muro dell’assuefazione il vescovo di Napoli, Domenico Battaglia, ha deciso di lanciare il suo vibrante e quasi disperato appello: camorristi convertitevi, state uccidendo Napoli! Vorremmo sbagliarci, ma abbiamo l’impressione che anche il suo monito contro i «silenzi» sia caduto, in larga parte, nel silenzio. Soprattutto la politica, con poche eccezioni, è rimasta zitta e muta: ed è un male, perché è proprio ad essa che il vescovo ha inteso rivolgersi. Quella stessa politica rimasta inerte e muta di fronte all’escalation criminale che sta lasciando a terra tanti giovanissimi, diffondendo il virus della paura, e dell’assuefazione, in troppe zone della città.

Bene ha fatto Battaglia a ricordare come la scia di sangue che in questi giorni sta attraversando Napoli e la sua grande area metropolitana - le nuove faide, la mattanza dei ventenni uccisi sempre più spesso dai loro coetanei - sia un grumo nero che riguarda tutti, e non il solo avamposto degli uomini in divisa. Grande assente nella lunga campagna elettorale che ha portato all’elezione del nuovo sindaco, scomparso dai radar dei partiti distratti dalle beghe e dai giochi di potere, il tema della lotta alla criminalità continua ad essere confinato nel solo perimetro dell’azione investigativa e repressiva. Accade da anni, come da anni i riflettori del governo e del parlamento si accendono sul “caso Napoli” solo a corrente alternata.

Un’emergenza dimenticata da tutti? Non dalle tante associazioni anticamorra che operano sul territorio. Non dai commercianti coraggiosi che si ribellano al racket. Non questo giornale, che su questi temi non ha mai abbassato la guardia, anzi è rimasto vigile proprio mentre la politica sembrava avvitarsi in una spirale di vuota autoreferenzialità, lontana dai bisogni reali e dalle sacrosante paure dei cittadini. Oggi come ieri.

Abbiamo puntato i fari su Napoli a mano armata, città delle stese e metropoli più armata d’Europa, con quattrocento sequestri di pistole, mitra e fucili in un anno. Abbiamo imposto all’attenzione di tutti l’insopportabile ricatto dei murales e degli altarini della camorra, tronfia espressione di un controllo geometrico del territorio da parte delle organizzazioni criminali ed esibizione muscolare di una prepotenza che nasce dalla certezza dell’impunità. Fino al punto di svolta, quando di fronte all’immobilismo del Comune il prefetto Valentini ha sollevato il problema pretendendo, di fatto, lo smantellamento di quei simboli criminali. E ancora ieri, nelle stesse ore in cui Battaglia lanciava il suo j’accuse, il Mattino dedicava ampi servizi alla mattanza dei boss ragazzini e alle faide dei “millennial” armati per il controllo dei traffici di droga.

Ma le lancette della storia, a Napoli, girano spesso a vuoto. E hanno il sapore dei deja vu, o delle lacrime del giorno dopo, le geremiadi della politica nazionale e locale sul rovinoso abbandono del territorio che di fatto lascia mano libera ai soldati dei clan e all’esercito degli aspiranti boss che cercano di farsi strada nel “sistema”. Perciò le parole di Battaglia, le sue urla nel silenzio, e quelle di pochi altri, parlano alla coscienza di tutti. Il suo monito - evitiamo di sdraiarci supini in attesa che qualcosa cambi, «rassegnati e assuefatti a veder morire Napoli» - suoni come una sveglia anche per la società civile che per difesa, o per assuefazione, appare spesso incline, per usare le parole del capo della chiesa napoletana, a «voltarsi da un’altra parte», non disponendo degli strumenti per reagire a un gangsterismo urbano sempre più diffuso e capillare.

Parole nette, quelle di Battaglia, che chiamano in causa anche le principali agenzie educative - la scuola e la famiglia - e il loro tragico fallimento. Il fallimento di un sistema familiare e sociale (si pensi ai progetti contro la dispersione scolastica, che altrove avanzano, mentre a Napoli sono fermi) che spesso produce «mostri» anziché cittadini consapevoli, portatori di un’energia distruttiva che non può essere derubricata solo a questione di ordine pubblico. Eccola, allora, la vera sfida. Se la violenza urbana è una malattia che s’innerva, come un cancro, nel tessuto civile e sociale della città, allora è di una bonifica civile, pedagogica e sociale a tutto campo che c’è bisogno, per evitare che quelle del vescovo restino urla nel silenzio.

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