La scuola non basta ​se intorno c'è il deserto

di Fabrizio Coscia
Mercoledì 13 Ottobre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Nel mio mestiere di insegnante mi è capitato spesso di lavorare in scuole di frontiera. E quando parlo di «frontiera» intendo proprio ai confini, ai limiti. Confini e limiti di legalità, di vivibilità, di dignità. Ne ricordo una, in particolare, arroccata nel centro storico di Napoli.

Quell’anno nella mia classe c’era un ragazzino - lo chiamerò Antonio - che a fine ora veniva spesso accanto alla cattedra per chiacchierare con me. Parlavamo più che altro di calcio, del Napoli, delle partite della domenica. Sembrava più piccolo dell’età che aveva e ricordo soprattutto i suoi grandi occhi di un azzurro chiaro, limpidissimo, spalancati su un viso smunto. Verso la fine dell’anno ci fu un agguato di camorra nel quartiere, nei pressi di un circolo ricreativo: un killer entrò nel locale e uccise il capoclan della zona, crivellato dai colpi di pistola davanti agli occhi di suo figlio. Quel figlio era Antonio. Lo scoprii solo allora che la famiglia a cui apparteneva era una delle più in vista nello scacchiere criminale della zona. Niente me lo aveva lasciato sospettare: né il suo modo di comportarsi, né i suoi discorsi. Mi sembrò di cadere dalle nuvole. Da quel giorno non ho saputo più niente di lui.

E quell’assenza, quella scomparsa, hanno pesato come un macigno sulla mia coscienza per molto tempo. Quei suoi occhi azzurri, così limpidi e infantili, hanno visto il male da cui noi non abbiamo saputo proteggerlo. 

E oggi che fine ha fatto Antonio? Ci penso ogni volta che leggo qualche notizia di cronaca nera che vede coinvolti dei boss ragazzini. La mattanza di questi giorni, atroce, tra le nuove leve di giovanissimi criminali che si combattono per il cartello della droga - la faida dei «millennial» - me lo ha così riportato in mente di nuovo e di nuovo, guardando le foto di questi giovanissimi, non posso fare a mano di provare un senso di fallimento e di sconfitta. Un senso di frustrazione. Quella stessa frustrazione che mi ha accompagnato per tutto quell’anno scolastico trascorso nel tentativo di offrire ai miei alunni uno spiraglio, una speranza, un modello alternativo a tutto ciò che li circondava. E che cos’era che li circondava? Vivevano, questi alunni, in un mondo separato dal nostro, un mondo con le sue regole, i suoi miti, il suo gergo di fronte al quale poco o nulla la scuola riusciva a incidere. Eravamo un presidio di legalità, certo, ma come la fortezza Bastiani sperduta in un deserto in attesa dell’arrivo dei tartari.

Solo che lì i nemici erano presenti eccome, e facevano sentire tutta la loro forza di fronte alla nostra impotenza, e i tartari che non arrivavano mai erano le istituzioni. E del resto, quei ragazzini, una volta abbandonata la nostra scuola, dove si potevano nascondere? Avevano qualche possibilità di salvarsi? Il destino di Antonio non era già segnato dal suo cognome, dal suo quartiere, dalle sue amicizie?

Oggi, di fronte a questo eccidio di ragazzi, dovremmo porci queste domande con più convinzione e ostinazione, e chiederci che cosa possiamo fare noi, cosa la società civile, per dare a questi ragazzi un’alternativa al vuoto culturale in cui vivono, al deserto in cui li abbiamo dimenticati. 

Credo che questa sia una delle sfide più difficili che il nuovo sindaco dovrà affrontare per la nostra città, ma allo stesso tempo spero anche che Gaetano Manfredi si riveli la persona giusta al momento giusto. Le premesse per essere fiduciosi ci sono. Il lavoro che Manfredi conduce da anni per fare dell’Università un osservatorio sulla criminalità organizzata ne è testimone. Il suo ultimo libro, curato insieme con Stefano D’Alfonso, «L’università nella lotta alle mafie», pubblicato quest’anno da Donzelli, sottolinea il ruolo svolto dalle università italiane nel sistema antimafia. Oltre a essere uno strumento di ricerca e di indagine utilissimo e prezioso è, vorrei dire, anche una dichiarazione di intenti, un modo per dimostrare che il mondo accademico può e deve aprirsi alla società civile; può e deve contribuire attivamente alla costruzione di una comunità sana, piuttosto che arroccarsi nei suoi effimeri giochi di potere o in una sterile autoreferenzialità. Perché le mafie non si combattono solo con la repressione del crimine, ma anche e soprattutto con una lunga e persistente azione educativa. 

Il nostro auspicio è dunque che all’impegno civile di Manfredi come studioso e accademico corrisponda lo stesso impegno come primo cittadino. Dopo un decennio di guasconerie guevariste inconcludenti e dannose, la città ha bisogno adesso di serietà e di sobrietà. Ha bisogno di fatti concreti. Ha bisogno, insomma, di voltare pagina. E sarebbe bello che nell’agenda del nuovo sindaco ci sia, al primo posto, la volontà di salvare tutti gli Antonio che abbiamo perso per strada.

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