Quello sguardo dall'alto ​e lo strabismo della politica

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 13 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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La proposta avanzata da questo giornale ai candidati sindaci, guardare la città dall’alto del grattacielo che ospita la redazione del Mattino al centro direzionale, ha un valore conoscitivo non da poco. Con un solo colpo d’occhio permette di abbracciare l’area amministrativa di Napoli in tutta la sua estensione. Il fitto tessuto urbano che senza soluzione di continuità si svolge dal mare a Nord, superati i Ponti rossi, verso Miano, Piscinola e Secondigliano; l’asse di via Argine che si inoltra in direzione di Ponticelli e che separa la zona industriale dai quartieri a Est, San Giovanni a Teduccio, Barra, rione Bisignano, Marianella. 

Il nodo di Gianturco e il fascio dei binari della ferrovia che fanno da confine sud orientale al rione Luzzatti e al quartiere di Poggioreale; e poi, lasciando correre lo sguardo verso Ovest, piazza Nazionale con il borgo di Sant’Antonio Abate, via Foria, il rione Sanità, Materdei e, sempre più in là, il Vomero, l’Arenella, rione Alto con la zona ospedaliera, la collina dei Camaldoli, oltre la quale, ai confini occidentali, stanno Pianura e, verso il mare, Bagnoli. Guardare la città dall’alto dà la misura della vastità del suo territorio, ma anche dell’intima connessione delle molte zone in cui si articola il suo tessuto urbano. In una parola, permette di cogliere con un solo sguardo la terribile complessità napoletana. Sta qui il nucleo centrale di quell’esperienza conoscitiva a cui facevo riferimento all’inizio. 

Salire su quell’osservatorio, volgere lo sguardo da quell’altezza, costringe infatti chi guarda a fare i conti con una città che il suo discorso pubblico sempre più in questi anni è venuto riducendo nel perimetro asfittico di due o tre quartieri rappresentativi, tutti immancabilmente del centro storico e antico di Napoli o, al massimo, delle loro immediate propaggini collinari. E invece Napoli si offre a colpo d’occhio, in una volta sola, come un fatto sociale unitario. Complice l’intensa e volgare commercializzazione dell’immagine della città, degna di esistere solo in quanto oggetto di investimento ludico-turistico, i napoletani hanno così finito per accomodarsi in una visione dualistica dello proprio spazio urbano, che separa e oppone appunto Napoli e la sua periferia, quel vasto territorio che nelle mappe topografiche della sua tarda modernità sono indicate come «Gomorra», il mondo del sottosopra, remoto e infernale, chiuso in una livida condizione di estraneità, tanto spendibile sul mercato globale dell’intrattenimento televisivo quanto irrelata con la città concreta, con la sua storicità e con la sua vita quotidiana. 

Napoli è venuta così svolgendosi sul terreno dell’immaginario più recente lungo due direttrici. Da un lato, la sua proiezione universalistica, un tempo popolare e piccolo borghese, tutta rappresentata in interni che fungevano da altrettante camere di tortura (si pensi a Natale in casa Cupiello), è stata sequestrata a vantaggio di una nuova condizione umana raffigurata ora nella vasta desolazione di paesaggi urbani in cui il tessuto della città si estingue progressivamente nelle sterpaglie dell’abbandono o tra le dune di sabbia di un litorale tirrenico dove sembra non dover spuntare mai il sole; dall’altro, e per un pubblico più attempato e conservatore, che sta meno a proprio agio tra le sterminate videoteche della televisione on demand, il centro storico, i vicoli, l’anima dei napoletani, venduti tutti come fossero un prodotto tipico insieme alle sfogliatelle e alla «zizzona di Battipaglia».

E invece, a ben vedere, le periferie non sono l’altro mondo. Al contrario, sono vicinissime. A pochissimi chilometri dai bar del centro e dalle «tazzulelle» di caffè. 

Lungo le arterie che le collegano alla «città», tutti i giorni, si muovono migliaia di persone. Con i propri mezzi o affidandosi a quelli resi disponibili dall’amministrazione comunale, si mettono per strade che sono dissestate e troppo strette per «portare» il traffico della terza città d’Italia. Tale, il più delle volte, solo per dimensioni demografiche, perché poi per il resto manca di tutto. Manca di un sistema viario decente; manca di trasporti funzionanti; manca, soprattutto, di un’ intelligenza urbanistica in grado di progettare le relazioni urbane che sono innanzitutto rapporti nello spazio. E di cui pure si sente la necessità perché quel famoso colpo d’occhio si traduca in un sistema urbano connesso e funzionante. Napoli, il suo territorio urbano, la vasta conurbazione della città metropolitana: un sistema sociale complesso, al quale da troppo tempo nessuno più presta l’attenzione di cui avrebbe bisogno. In campagna elettorale, la periferia è sempre oggetto di frasi di circostanza, mentre nessuno tra i contendenti oggi in campo sembra avere un’idea di cosa debba essere la città, in quanto appunto sistema urbano di parti interconnesse, nei prossimi cinque anni. È più facile progettare la fuffa culturale con le sue factory della creatività che dare una risposta alle centinaia di migliaia di napoletani che abitano i territori colonizzati dal nuovo immaginario e dalla versione post moderna che ha contribuito a divulgare dell’antico «hic sunt leones». Non è vero come si è detto in questi trent’anni che la cultura è la più importante risorsa produttiva della città. Se non sono una banalità, frasi del genere costituiscono la misera foglia di fico messa sulla perdita effettiva di ruolo economico e di prospettive di sviluppo industriale. Quando non si sa a che santo votarsi allora esce fuori la cultura: un po’ di cinema, un festival del teatro, qualche scrittore di gialli. A rigore, più la città decade più l’immaginario fiorisce. E invece è la città reale che va pensata. Anche questo sarebbe un terreno di idee, di cultura, ma di una cultura soda, progettuale, fiduciosa nel futuro. Capace di pensare in grande. Insomma, niente a che fare con i balbettii di questi giorni. 

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