In questi anni i centri urbani hanno subito una trasformazione evidente. Si sono progressivamente svuotati di cittadini che dipendono da reddito da lavoro e si sono riempiti di singoli e di società che dipendono dallo sfruttamento della rendita. La proliferazione di locali per l’aperitivo, di bar e baretti, di ristoranti di dubbio gusto ma ubicati in angoli suggestivi, di friggitorie un po’ dovunque e, poi, di appartamenti sottratti ai fitti per residenti e immessi sul mercato ad altissima redditività delle locazioni brevi per turisti globali, la diffusione a macchia d’olio di residence e bed and breakfast, sono altrettanti fattori di spinta che mandando alle stelle i prezzi delle case espellono abitanti.
In particolare, quel ceto medio altamente scolarizzato che non compra solo telefonini e cibo, ma anche libri, va a teatro e cinema e sostiene così un circuito di attività commerciali a base culturale che non solo variano l’habitat urbano ma ne sostengono il tono civile. È su questo sfondo che Napoli, letteralmente devastata dall’onda di piena del turismo di massa, ha visto progressivamente sparire in questi anni librerie e, appunto, cinema e teatri. Mentre è ancora incerto il destino del Metropolitan, a pochi metri di distanza rischia di chiudere un altro luogo storico di quel consumo culturale urbano che è tanta parte della vivibilità di una città, il cinema delle Palme.
Ma chi ha un’età sufficiente e un minimo di memoria sa che negli ultimi quarant’anni sono scomparsi ben altri “nomi”, ognuno dei quali puntellava un ideale itinerario del passeggiatore urbano solitario, del flaneur metropolitano. A vantaggio di altre forme di socialità, gregarie e invadenti, anonime, alla lunga incompatibili con qualsiasi idea di civile convivenza.
Che cosa infatti ha sostituito quei nomi? Prevalentemente bar e pizzerie, e soprattutto supermercati. Il valore degli immobili, nelle aree cosiddette di pregio, è tale che il profitto che promettono di realizzare diventa troppo per potervi resistere. Fondi e società finanziarie ci vanno a nozze e la pressione sui privati perché vendano diventa potentissima. Ma l’affare è anche più a buon mercato. Basta avere un appartamento e metterlo a profitto. Due camere da letto con bagno e il gioco è fatto. In questo modo, però, la città smette di essere tale e diventa una mera occasione di valorizzazione della proprietà immobiliare.
Alla base di questo processo c’è essenzialmente la rinuncia delle amministrazioni locali a governare lo spazio urbano. La totale assenza di vincoli, l’incapacità di tenere a freno gli interessi speculativi più aggressivi, la ricerca spasmodica di investitori immobiliari, tutto questo non solo ha consegnato le città a forme vere e proprie di predazione urbana ma ha fatto sì che lo spazio stesso della città venisse modellato sotto la pressione di tali interessi. La forma urbana è ormai sempre più una forma speculativa.
Dentro questo nuovo habitat i cittadini, nel senso letterale del termine, il cives la cui relazione con la comunità è nutrita di diritti e di doveri, letteralmente scompare. O perché appunto spinto ad abbandonare i quartieri storici del suo insediamento, alla ricerca di prezzi più bassi e di condizioni di convivenza più accettabili, o perché relegato nella propria sfera privata.
Si dice, per restare all’esempio dei cinema e dei teatri, che il consumo culturale pubblico soccomba per la concorrenza dell’accesso privato agli stessi contenuti. È la vecchia solfa del cinema sconfitto dalla televisione aggiornata ai tempi delle piattaforme e di Netflix (peraltro non proprio in buone acque in questo periodo). Sarà anche così. Ma che cosa dovrebbe spingere una persona a uscire di casa? Avete presente che cos’è un fine settimana in città?
Il traffico infernale, l’occupazione aggressiva e minacciosa dello spazio da parte di orde sciamanti di consumatori cresciuti in un regime di indolenza di massa. Passeggiare per le strade del centro, andare al cinema a piedi, trovare posto in una pizzeria decente. Insomma, spendere il proprio tempo lontano dalla pressione di una massa incombente, berciante e minacciosa, in uno stato permanente di eccitazione aggressiva, è praticamente impossibile.
Restare a casa è semplicemente meno rischioso. Ci vorrebbero un assessore al patrimonio, una serie di vincoli di destinazione d’uso imposti agli immobili e una buona dose di energico ed intelligente esercizio dell’ordine pubblico. Solo così la città verrebbe restituita ai suoi abitanti, e forse i cinema, le librerie e i luoghi della conversazione pubblica non scomparirebbero uno dopo l’altro.
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