I simboli della camorra e il decoro di una città

di Vittorio Del Tufo
Venerdì 15 Gennaio 2021, 00:00
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Sappiamo tutti, ma forse in questi giorni è opportuno ribadirlo, che per erodere consenso alla camorra non basta un colpo di vernice bianca sui murales che inneggiano alle vittime dei comportamenti criminali. Sappiamo tutti che la demagogia è in agguato, sempre. E che sono le nostre coscienze, forse prima ancora dei nostri muri, ad aver bisogno ogni tanto di una ripassata di bianco per farci sentire immacolati e puri, convinti di stare dalla parte giusta.

Insomma, lo sappiamo bene: ripulire i muri serve a poco, l’azione repressiva da sola non basta, la vera bonifica è culturale e sociale. Ma che il Comune, finora assente e dormiente, si accorga dei murales della camorra solo dopo la sonorissima cazziata a mezzo stampa del prefetto, è francamente imbarazzante. Vogliamo dirlo con parole chiare: le famiglie hanno tutto il diritto di ricordare i loro morti. Le autorità, a partire dall’amministrazione cittadina, hanno invece il preciso dovere di impedire che il ricordo diventi un modello - un simbolo - da imporre alla città. Punto e basta, tutto il resto è demagogia.

È piuttosto singolare che il Comune, per difendere la propria strafottenza sull’argomento, abbia tirato in ballo il «culto dei morti». È vero, Napoli ha sempre avuto un dialogo ininterrotto con i suoi morti. In quel luogo così denso, profondo e pauroso che è la morte la città da sempre riconosce qualcosa di familiare: un labirinto di ombre che dialoga senza sosta con la città “di sopra”. Le stesse presenze che abitano gli ipogei della memoria urbana, per dirla con l’antropologo Marino Niola, «continuano a intrattenere rapporti con i viventi». Questo siamo noi, è il nostro Dna, la nostra storia, la nostra cultura. E basta entrare nella chiesa del Purgatorio ad Arco, o nel cimitero delle Fontanelle, dove le anime pezzentelle chiedono ai vivi un rito di compassione, per rendersi conto che la morte, in città, è un teatro della memoria viva, come i fantasmi di Eduardo.

Questo vale anche per i morti di camorra, i cui genitori non sono diversi da noi. Ma tirare in ballo il «culto dei morti» per giustificare l’immobilismo è maldestro, provocatorio, inammissibile. Sulla lotta al crimine, hanno spiegato da Palazzo San Giacomo per replicare alla dura reprimenda del prefetto, sappiamo tutti da che parte stare. E ci mancherebbe altro, aggiungiamo noi.

Siamo tutti bravi a parlarci addosso, ad avvolgerci in una bandiera di legalità per autoassolverci e convincerci, una volta di più, che siamo dalla parte giusta della barricata. Ma la verità è che la lotta per la legalità, in questa martoriata e bellissima città, è stata demandata solo all’avamposto degli uomini in divisa. Il compito di porre un argine alla barbarie, al Medioevo che ci portiamo appresso (e troppo spesso ci sentiamo addosso) è affidato solo all’azione repressiva della magistratura e delle forze dell’ordine.

In vico Sedil Capuano, angolo via Tribunali, dove continua a campeggiare il grande murale di Luigi Caiafa, il 17enne morto in seguito a un conflitto a fuoco con la polizia nel corso di un tentativo di rapina, lo Stato semplicemente non c’è, e se c’è non si vede. Bisognerebbe riconoscere, al di là dei meriti e dei sacrifici degli uomini in divisa, e delle abilità investigative della magistratura, che in troppe zone della città, e Forcella è una di queste, lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, ha smesso da tempo di fare lo Stato e di esercitare le sue funzioni di vigilanza, di controllo e di prevenzione. E se non interviene per cancellare i murales della camorra vuole dire che ha scelto la resa, ha scelto di non opporsi ai ricatti intollerabili dell’Antistato.

Forse il dibattito sui murales della camorra, e sul tragico immobilismo del Comune che dovrebbe cancellarli e non lo fa, può servire almeno a ricordare a tutti noi che contro la cultura dell’’illegalità, come ha sottolineato ieri con efficacia su questo giornale Francesco Barbagallo, non si possono ottenere risultati duraturi senza un impegno e un intervento costante dell’intera società e delle sue istituzioni. Se le armi dei poteri di contrasto sembrano spuntate, se la risposta repressiva, di fronte alla pervasività della nuova camorra, finora non ha dato i frutti sperati, è perché non è stata accompagnata da un’azione di risanamento di un territorio in troppi punti sventrato: il risanamento civile e urbanistico dei quartieri ad alta densità abitativa e criminale. E politiche per il lavoro in grado di svuotare l’oceano di consenso sotterraneo e strisciante dal quale le bande criminali (vecchie e nuove) continuano a trarre linfa.

Per ricacciare questo Medioevo nella pattumiera della storia abbiamo il dovere - tutti - di avviare una bonifica a tutto campo: proprio ciò che finora è mancato, nonostante gli avvertimenti periodici (e inascoltati) dei vertici della magistratura; e nonostante i “regni del possibile”, più stesso dell’impossibile, invocati in passato. Tutti andati a sbattere contro l’inconcludenza della politica l’immobilismo della città.

Saremo degli illusi, ma continuiamo a pensare che abbia ragione chi sostiene che bisogna partire dal degrado per arrivare alla sicurezza. Anche con il decoro urbano si può combattere la camorra. Nel cuore malato della città, delle periferie in pieno centro - abbandonate al loro destino, dove gli unici a muoversi sono i volontari delle associazioni di quartiere - il decoro è scomparso dai radar da tropo tempo. Anche qualche muro lurido sbrecciato in meno, e qualche intervento di manutenzione in più, possono fare la differenza.

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