Il caso Villa Ebe, paradigma di un Comune schizofrenico

di Piero Sorrentino
Lunedì 10 Maggio 2021, 00:00
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Ci sono, a Napoli, due Comuni di Napoli. Uno evidente, tutto in luce. L’altro sotterraneo, meno facile a leggersi. È il primo, più evidente paradosso di una amministrazione di lotta e di governo che ama rappresentarsi come libera dalle convenzionalità della politica più paludata, che vive nel suo felice esilio colorato d’arancione, gratificata dalla visione della propria originalità, del suo essere libera, unica e irripetibile. Il Comune numero 1 è quello del sequestro di Villa Ebe e del Cimitero dei colerosi, della Cassa armonica della Villa comunale utilizzata come sala fitness, della città con un numero record di chiese e palazzi sfregiati, come raccontava Paolo Barbuto nei giorni scorsi su questo quotidiano. 

Il Comune numero 2 è quello del tavolino selvaggio, del Far West del fine settimana dove la pandemia non sembra mai essere calata, dei locali ai quali sono concessi, in nome dell’economia e del circolo di denari da far ripartire a tutti i costi, interi pezzi di città, tra strade e marciapiedi. 

Come ne “Il settimo sigillo” di Bergman, la partita a scacchi tra queste due amministrazioni procede serrata. Ogni tanto, sia pur fugacemente, i due giocatori si guardano in un istante di misteriosa tenerezza, per poi tornare a darsi battaglia. Stanno insieme in silenzio, come quelle coppie di lungo corso che non tacciono perché stanno bene assieme pur senza dirsi niente di preciso, ma perché preferiscono restare a bocca chiusa per non dover litigare in pubblico. Alla mossa della prima corrisponde l’arrocco della seconda. Per ogni pietra che smotta c’è un tavolino che spunta, per ogni parete che crolla c’è un locale che espande. Da questo punto di vista, nella vicenda del castello di Pizzofalcone sta la sintesi perfetta di questa partita, le cui pedine sono – miniaturizzati e neutralizzati – i cittadini napoletani. Bisognerebbe stampare e distribuire il decreto di sequestro del Gip, perché mette nero su bianco, con la fredda lucidità della prosa dei giuristi, un intero regesto di dieci e passa anni di (non) amministrazione cittadina. Il procedimento è attualmente aperto a carico di ignoti, ma Palazzo San Giacomo, secondo il magistrato, era “pienamente consapevole del pregio dell’immobile, di interesse particolarmente importante, e aveva l’obbligo di tutelare l’edificio in modo omnicomprensivo, cioè da fattori naturali ovvero umani”.

Non che non si fosse fatto nulla, negli ultimi tempi. Dopo quasi dieci anni dall’acquisto dell’immobile dalla società immobiliare che aveva, a sua volta, comprato la villa dagli eredi di Lamont Young, il Comune aveva dato il via libera al progetto esecutivo per il recupero e il restauro dell’edificio che indicava in Villa Ebe un polo di attrazione turistica, dotato di tutti i servizi e fornito di un grande telescopio che, dalla terrazza panoramica, consentiva l’osservazione del Golfo e delle sue bellezze infinite, assieme a un museo interattivo e altri servizi per i cittadini e i turisti.

Dopo, ancora, erano stati destinati alla struttura appalti e risorse, fino a che, dopo varie vicissitudini, nel febbraio del 2020, Villa Ebe rientra nell’elenco degli immobili che l’Ente ha intenzione di dismettere, salvo poi, con una nuova retromarcia, l’immobile viene escluso dal piano di dismissione. Insomma, un capolavoro di carte bollate condite da una totale insipienza progettuale sul lungo periodo. Ma siccome la legge, diceva Tolstoj, è come la “banderuola di un vecchio campanile, che cambia a seconda di come soffia il vento”, quel medesimo Comune che gioca a scacchi contro se stesso (e contro la sua città) diventa di colpo un inossidabile centometrista del liberismo e della deregulation quando si tratta di lasciare il campo più libero possibile all’espansione dei tavolini sul suolo comunale: delibere approvate in un batter d’occhio, controlli all’insegna della tolleranza, annunci stentorei che promettono di risolvere la crisi nera del commercio fiaccato dalla pandemia al suono di “più spazi per tutti” (e pazienza per i ristoratori e i titolari di esercizi pubblici che non possono sedersi al tavolo del fiero pasto). 

Villa Ebe è cultura, storia, tradizione, identità, patrimonio pubblico. Porta conoscenza, civiltà, crescita dell’autoconsapevolezza di una città? Certo che sì. Porta voti e consenso? No, decisamente. O almeno, ne reca molti meno di quanto riesca a garantire la certezza di prosperità per il sacro rito dello spritz pomeridiano. La nevrosi collettiva della città sta anche in questo rimpiattino continuo di responsabilità che sbagliano il loro raggio d’azione, nell’infinito bisticcio tra le cose pubbliche che dovrebbero farsi (e non si fanno) e le cose private costantemente tutelate, sorvegliate, seguite come se da queste dovesse dipendere chissà che. Da qui la fiera delle contraddizioni, il mercato degli ossimori di Napoli, che si apre con i beni pubblici che crollano e si chiude nel coprifuoco urbano che, di fatto, già non esiste più. Ma da qui, inoltre, il grumo irrisolto di domande che chiama in causa il sentimento stesso del percepirsi, più che cittadini, pedine di una partita a scacchi il cui svolgimento la città non si merita.
 

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