Se alla città non resta che affidarsi al destino

di Fabrizio Coscia
Giovedì 7 Gennaio 2021, 00:00
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C’è una parola napoletana, la «ciorta», che si riferisce sia alla buona che alla cattiva sorte, proprio come la dea greca Tyche. Qualcosa, cioè, che ha a che fare con il caso e il destino (nel Rinascimento la Fortuna veniva spesso raffigurata come una donna in precario equilibrio su una barca o su un delfino, oppure calva per metà capo, a sottolineare la difficoltà di acciuffarla per i capelli).

Anche nella «ciorta» napoletana, dunque, si può individuare la radice di una concezione assai precaria - direi tragica - della vita umana. Perché ne sto parlando? Perché ogni volta che in città scatta un’allerta meteo, ecco che la «ciorta» arriva a governare le nostre vite, affidate al suo capriccio, ai suoi occhi bendati, al suo precario equilibrio sul dorso scivoloso di un delfino. È di pochi giorni fa la notizia dell’ennesima caduta di un albero a piazza Cavour che ha ferito un ragazzo in motorino (per fortuna non gravemente). Ma tutti ricordiamo la tragedia di Cristina Alongi, morta proprio per il crollo di un albero a via Tasso (quello stesso anno venne giù anche un’ala di Palazzo Guevara di Bovino, alla Riviera di Chiaia). Due anni fa la vittima è stata Davide Natale, il giovane studente di San Nicola La Strada morto per un albero crollato presso la sede del Cnr, a Fuorigrotta. E sempre a Fuorigrotta, a via Leopardi, chi scrive si è salvato lo scorso anno solo grazie a un semaforo rosso, davanti al quale ha visto cadere rovinosamente un lampione, finito sulle strisce pedonali. 

E poiché nulla è stato fatto in questi anni in termini di prevenzione, di messa in sicurezza, di monitoraggio, a ogni giornata di vento o di pioggia è la «ciorta», nel suo potere impersonale, piuttosto che il buongoverno degli uomini, a decidere se il povero cittadino può tornare a casa incolume oppure no. Di fronte a questa fatalistica rassegnazione cui ci hanno condannato gli amministratori della nostra città, mi viene in mente allora un romanzo di qualche anno fa scritto da Sergio De Santis, intitolato «Cronache dalla città dei crolli», dove si racconta di una Napoli prossima ventura (riconoscibilissima anche se mai nominata) colpita da ripetuti e misteriosi crolli di palazzi, il cui cemento si sbriciola, si sfalda inesorabilmente, mentre da lontano, ogni giorno, si sentono i boati delle cadute rovinose. Questo mondo in disfacimento, che se ne cade a pezzi e accumula macerie, è la pre-visione di una città che ha poi confermato nei fatti le intuizioni più disastrose.

Possiamo dire che in tal senso Napoli incarna il celebre aforisma di Oscar Wilde, secondo cui «la vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita». Solo che in questo caso la vita (di Napoli) sembra attuare la peggiore delle distopie immaginate dall’arte. Come non pensare, infatti, di fronte ai danni provocati al Castel dell’Ovo dalla recente mareggiata, con il crollo dell’Arco borbonico, anche ai cedimenti di ogni sorta evocati da Nicola Pugliese nel romanzo «Malacqua», pubblicato nell’ormai lontano 1977? Qui una pioggia fitta e continua di quattro giorni materializza i più sinistri presagi di una imminente apocalisse, dove la città dal «gran corpo abbandonato di puttana» in putrefazione, la «città maledetta» invasa da rifiuti ed escrementi, non può più nemmeno purificarsi dai peccati della sua gente con una «squallida vergognosa morte inarrestabile». 

O come non pensare, anche, a certe grottesche e cupe atmosfere presenti nei racconti di Luigi Compagnone che compongono «Città di mare con abitanti», o alla metafora di Raffaele La Capria sulla Napoli che «ti ferisce a morte o ti addormenta»? 

La ferita a morte procurata dalla città ai suoi abitanti è diventata, da allusiva che era, una realtà di tutti i giorni. Ma se la forza della letteratura è anche (o soprattutto) nella sua capacità di leggere nel profondo, di anticipare, di immaginare ciò che verrà, qui ci troviamo di fronte a un evidente paradosso. La situazione catastrofica di Napoli, con i crolli e l’incuria, il malgoverno e le eterne emergenze, ha bruciato ogni possibilità di metafora, costringendo qualsiasi discorso su e intorno alla città ad appiattirsi nella cronaca, a riprodurla, a inseguirla o - al limite - a esorcizzarla. Ma una città che non è più capace di produrre metafore, nemmeno quelle più apocalittiche, perché le ha già realizzate tutte, è una città che ha annullato di fatto lo spazio tra realtà e immaginario, e dunque ha annullato anche la possibilità di concepire una realtà alternativa, un mondo diverso oltre la fine del mondo. È una città, in definitiva, a cui non resta che affidarsi alla sua «ciorta»: inaspettata, incalcolabile e imprevedibile.
 

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