Napoli deve aprirsi di più, la cultura va esportata

di Francesco Pinto
Mercoledì 4 Agosto 2021, 23:58 - Ultimo agg. 5 Agosto, 06:00
6 Minuti di Lettura

Le parole di Riccardo Muti sono da ascoltare con rispetto perché aprono, sempre, spunti di riflessioni sui destini culturali della nostra città da troppo tempo patrimonio degli “indignati” (il degrado è ormai intollerabile) o dei “cantori” (la città più bella del mondo). Il Maestro pone invece tre temi concreti con la mancanza di diplomazia che può permettersi e che richiede una riflessione con la medesima franchezza Vado per ordine. Il primo: il centro storico è imbrattato e manca qualsiasi rispetto per il bello e l’armonia. È fuori da qualsiasi discussione che questo luogo fisico e culturale ha subito una trasformazione profonda con il suo essere “invaso” da moltitudini di turisti che lo attraversano con lo stupore del meraviglioso della sua straordinaria architettura e il brivido di entrare in contatto con quella folla di lazzari felici e pericolosi che lo abita secondo uno degli stereotipi che accompagna da sempre questo spazio. Questa trasformazione la possiamo chiamare degrado o “civilizzazione” e, probabilmente, il suo destino, è tutto in quale delle due scegliere.

Usare la prima è semplice e fiumi di parole e di scritti si sono addensati e sprecati intorno ad essa. Più complicata è la seconda perché è, per molti aspetti, una parola terribile con il suo portarsi dentro una idea di distruzione dei concetti dell’età dell’innocenza e dell’armonia. La modernizzazione distrugge, non c’è niente da fare, ma è anche quella forza impetuosa che cambia le cose e probabilmente le salva dalla lenta agonia della memoria e dalla nostalgia dei bei tempi di una volta quando tutto era semplice e pieno di rispetto. Si possono tenere insieme le due parole? Ovviamente bisogna provarci, ma è una strada stretta perché i due termini sono, quasi sempre, in conflitto, non c’è niente da fare. 

Su questo difficile tracciato è inoltre da sottolineare una anomalia, una delle tante, della nostra città: i suoi abitanti, al contrario di quello che è avvenuto in altri luoghi sottoposti ai massicci fenomeni di “turistizzazione”, non sono stati espulsi e sono rimasti inchiodati nei loro vicoli e nelle loro piazzette e, come fanno da sempre, si sono adattati al nuovo “dominio”. Ora questa moltitudine di corpi produce altri mestieri rispetto a quelli, quasi tutti illegali, di qualche tempo addietro. Sono i nuovi barbari certo (anche se la parola è più complicate di quella che sembra e furono i greci ad inventarla per “raccontare” i romani), ma dentro di essa c’è vita piuttosto che morte. Mi sembra un bel passo in avanti. 

Secondo punto: Napoli è un tesoro nascosto che aspetta di essere portato alla luce. E qui è uno dei temi strategici del futuro della città che, però, si poggia su di una spaventosa contraddizione. Gli scrittori napoletani sono da anni nelle vette dei libri più venduti, la sua musica, vecchia e nuova, popolare e colta, continua ad essere cantata e suonata in ogni angolo del mondo, le fiction su Napoli, e in generale del Sud, sono al centro della narrazione cinematografica e televisiva producendo un racconto della città “mondo”, e in generale del Mezzogiorno, radicalmente diverso e migliore da quello cupo degli organi di informazione ancora fermi sulla triade stereotipata camorra, malasanità, corruzione. Napoli esporta dunque il suo patrimonio culturale e di immaginario in maniera massiccia come nessuna altra metropoli italiana, e probabilmente europea, ma, ed è qui il suo dramma, non lo produce. È uno straordinario giacimento dove le sue “risorse naturali” hanno una ricaduta in termini di ricchezza economica sostanzialmente marginale e non strategica. 

Lo dico in maniera probabilmente brutale: tra Napoli e la Nigeria non esiste una sostanziale differenza da un punto di vita industriale.

Non c’è una casa editrice in grado di competere davvero sul mercato (c’è l’ha la Puglia e la Sicilia), non c’è una società di produzione cinematografica e televisiva in grado di “trattare” con le i broadcasting e con le nuove piattaforme digitali se si esclude qualche “eroico” imprenditore come Luciano Stella e pochissimi altri. Insomma non mancano le materie prime e i professionisti mentre quello che è assente è il vertice strategico della catena del “Valore”. Ci sarebbe da interrogarsi a lungo sulla mancanza sostanziale di produttori come problema antico che è presente fin dagli inizi del secolo scorso quando erano le case discografiche del nord a realizzare “affari” con la canzone napoletana, ma questo è il tema vero che dovrebbe essere affrontato non tanto dal ceto politico, al quale si chiede troppo spesso una funzione di supplenza inutile e dannosa, quanto dal nostro ceto imprenditoriale e produttivo. Ovviamente questo non significa ipotizzare una sorta di meccanismo “protezionistico” per evitare l’invasione. Al contrario il tema vero è come entrare in concorrenza con loro, come costruire alleanze, progetti condivisi, strutture produttive. 

Sta qui, almeno a mio avviso, il vero dramma del nostro patrimonio culturale e di immaginario: essere presente solo nei punti estremi della catena del valore con le sue materie prime e il suo consumo. Proprio per questo mi permetto di dissentire con l’affermazione del Maestro Muti che “non servono dirigenti, né star di passaggio” perché, se è giusto quello che abbiamo prima evidenziato, è vero l’esatto contrario. Napoli ha bisogno di dirigenti “stranieri” in maniera oserei dire disperata. Solo loro possono intervenire in maniera barbara, credo si sia capito che, per quanto mi riguarda, la parola non ha nessun significato negativo, per rompere con la “tradizione “e fare uscire la città dalla camicia di forza della “napoletanità”. La forza di una città è quanto attrae non quando respinge proponendo gli esami di ammissione. Il vantaggio di Milano, per restare in Italia, sta tutto qui: nella capacità di accogliere esperti “stranieri” dentro sistemi produttivi aperti che, con un immaginario e una cultura molto più debole della nostra, sono però in grado di utilizzarne in maniera infinitamente superiore le loro “intelligenze”. Insomma Napoli si “salva” se non si chiude a riccio in difesa della sua tradizione per iniziare, finalmente, a guardare al futuro piuttosto che al suo glorioso passato.

Conoscere Napoli, e porre un problema produttivo, può essere un punto di partenza e, un primo passo concreto, potrebbe esser quello di chiedere al nuovo Consiglio di Amministrazione della Rai di riunirsi per la prima volta proprio nella città dei giacimenti culturali, la nostra. Non succede da più di venti anni e l’ultima volta che accadde c’era un burbero e intelligente direttore generale che si chiamava Pierluigi Celli. Sia lui che un suo successore, Luigi Gubitosi, conoscevano pochissimo della Rai e non ne “rispettarono” né il passato né la tradizione, e forse proprio per questo la salvarono. Il nuovo amministratore delegato è un uomo di cultura e capisce perfettamente che il suo valore è quando si produce non quando semplicemente si consuma.

© RIPRODUZIONE RISERVATA