Perché vince la bellezza della cultura

di Titti Marrone
Venerdì 28 Febbraio 2020, 00:00
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La Grande Bellezza napoletana chiamata storia si è rivelata ieri carta vincente della città, tutto il contrario della «carta sporca» di cui «nisciuno se ne ‘mporta». È accaduto nel giorno inaugurale del secondo festival laterziano «Lezioni di storia» nella città italiana più adatta ad ospitarlo, dal momento che in nessun’altra convivono così magnificamente, in stratificazione simbolica e reale, il luogo dell’arte greco-romana e dell’arte contemporanea, quello della musica, del teatro, dell’antichità e della modernità. Passato legato al presente manifestato in creatività, capacità di fondare nuovi linguaggi espressivi, disseminati in un calendario di incontri ancor più fitto della prima edizione, in una decina di location, primo tra tutti il Bellini dei fratelli Russo, e poi musei, accademie, biblioteche, scuole.

A Napoli, dove la storia è Grande Bellezza pulsante così fortemente nel raggio racchiuso nell’area del centro antico, che quasi la si sente scorrere passeggiando per i Decumani, come il fiume carsico della lunga durata descritto da Braudel. Nonostante il sold out delle prenotazioni registrato per i quattro giorni della rassegna, la vigilia del festival aveva suscitato timori di diserzione causa panico da Coronavirus, e invece il debutto è stato battezzato da un bellissimo pubblico, attento, entusiasta e anche numeroso. Facce di napoletani che Totò avrebbe definito semplicemente “uomini”, cioè persone estranee alla Grande Bruttezza inflitta sotto forma di stese, di raid e delle altre sopraffazioni da prepotenze di “caporali” nelle loro varie declinazioni, sempre dominanti nella rappresentazione su Napoli. 

E anche se la chiusura delle scuole ha reso impossibile la partecipazione degli studenti (liberando posti che potranno essere prenotati nei prossimi giorni), il pubblico napoletano nei vari incontri, dal Bellini alle Belle Arti al Madre al Mann al Cervantes, ha offerto l’immagine di una cittadinanza poco incline a segregarsi in casa sull’onda di allarmismi esagerati. Nel dilagare di scenari apocalittici di luoghi in cui tutti, a partire dal governatore lombardo, si mostrano bardati da mascherine spesso del tutto inutili, l’immagine di normalità offerta ieri dalla città faceva pensare al “Noi e loro”, leit-motiv del festival, in un’accezione bonariamente sudista suggerita, con tocco d’ironica maliziosa grazia, da una studiosa come Eva Cantarella, salernitana di nascita da anni residente a Milano. “Vengo da una città dove tutto è chiuso, sigillato, e che sollievo l’apertura che trovo qui a Napoli, dove si sale e si scende dai bus senza problemi.” (E qui è stato impossibile, per il nostro Pietro Sorrentino, sottrarsi alla scherzosa tentazione di farle notare che in realtà i napoletani salirebbero e scenderebbero dai bus anche più spesso e con maggior leggerezza… se solo passassero).

Ma qual è l’alchimia misteriosa, il segreto del richiamo esercitato dal festival della storia ai tempi del Corona virus? Di sicuro la varietà dei temi, declinati in formule comunicative agili che coniugano il rapporto passato-presente con miti ad alto contenuto popolare come Totò, Maradona o Sophia Loren. Ma alla buona riuscita del festival, ideato e fortemente voluto dall’editore Laterza e sostenuto dalla Scabec della Regione Campania, contribuisce soprattutto un team al lavoro tutto l’anno che assicura l’impeccabilità dell’organizzazione ed è di per sé un altro importante traguardo, nella città degli individualismi contrapposti: alla guida di tutto, un’associazione come A voce alta dell’infaticabile Marinella Pomarici, un folto gruppo di volontari ed una rete che quest’anno include gli Amici della storia di Maria Filipponi, istituti di cultura napoletani e librerie indipendenti.

Ma poi già nella giornata di ieri si avuta la prova del riproporsi di un singolare effetto-festival, presente fin nella prima edizione e capace di aggiungere all’alto livello degli studiosi coinvolti un elemento in più: una volta sul palco del teatro, una sorta di metamorfosi poco prevedibile li porta ad abbandonare il convenzionalismo dell’accademia per indossare l’abito dei brillantissimi divulgatori, dei narratori di vicende del passato, illustrate con efficacia da testimoni diretti. Il primo a fornire prova di ciò fu il grande Giuseppe Galasso quando, alla rassegna “Napoli è un romanzo”, nel novembre del 2017 sedusse dal palcoscenico del Bellini un pubblico numerosissimo, e suscitò un entusiasmo degno di una rockstar con un’indimenticabile lezione sul resto di niente di Enzo Striano che fu anche la sua ultima apparizione in pubblico. Ieri sera è capitato a John Foot (che bisognerebbe ribattezzare “Football”) con la lezione su Maradona.

Prima ancora, è stato Emilio Gentile ad assumere le sembianze di straordinario divulgatore: in oltre un’ora serratissima ma volata via in un soffio, lo storico del fascismo ha illustrato “La storia secondo Totò”, declinando la diade “Uomini e caporali” come paradigma di una visione del mondo del tutto opposta al “non cominciamo con la storia!” declamato nel film “Totò a Parigi”. Sì, perché di storia come “vita umana del passato” è lastricata l’intera cinematografia di un genio napoletano che, nell’incontro inaspettato con lo storico del fascismo, si è svelato in un’angolazione del tutto inedita. Gentile l’ha raccontato con l’ausilio di una sapiente scelta di spezzoni di film, a mo’ di chiosa su Totò come “il più grande filosofo napoletano” quasi contiguo a Croce, intento a mostrare l’intera storia italiana, dalla Grande Guerra in poi, come epopea di caporali sopraffattori contro uomini vessati. Ha fatto emergere la spiccata propensione identitaria del genio Totò per questi ultimi, abitanti della città-carta-sporca, specie se tormentati dal potente di turno che li minaccia di poter fare quel che vuole, avendo sulle loro vite carta bianca. E di questa, l’homo neapolitanus Totò suggerisce al pre-potente un solo uso possibile, scandito con soddisfazione dal palcoscenico: «E ci si pulisca il c…».
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