Vince la felicità spontanea, non l'imbecillità

di Guido Trombetti
Giovedì 8 Giugno 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Nel suo lucido intervento sul Mattino, Massimo Adinolfi ragiona sulle forme assunte dai festeggiamenti dei napoletani in occasione della conquista dello scudetto. I napoletani «sanno e vogliono correre il rischio delle esagerazioni, delle convulsioni, delle sproporzioni, ma sanno anche che ogni gioia vera è sempre eccessiva».

E ancora: «Si ricordano di quelle mamme che ai figli dicono va’ pure a giocare, ma non sudare, e però no, non c’è modo di giocare, di festeggiare, di cantare, senza sudare. … E sono pure abbastanza scafati da vivere l’incanto con il giusto disincanto. Ci convivono da sempre. Anzi, di disincanto ne hanno pure troppo, da non prendere veramente sul serio neppure il nocciolo di razionalità che c’è anche in un traguardo sportivo». Complementare all’intervento di Adinolfi, l’elegante intervento di Titti Marrone sempre sul Mattino di ieri. E per certi versi, con il suo abituale tono gentile e piano, Titti fa anch’essa il controcanto – forse involontario - ad altri interventi apparsi sulla stampa in questi giorni. Siamo in festa per lo scudetto «da almeno due mesi», osserva Marrone. 

E adesso può bastare. Adesso occorre liberare statue e monumenti da maschere e mutandoni. Occorre liberare la città dall’alluvione di striscioni di plastica che collegano balconi richiamando una delle Città invisibili di Calvino. Molto rapidamente i suddetti festoni sono destinati a diventare ricettacoli di schifezze. A chi tocca toglierli? A chi li ha messi la risposta. Una volta le madri dicevano ai figli (ma speriamo si usi ancora): finito di giocare, si deve togliere tutto di mezzo. Ecco, questa è una semplice proposta lanciata in tono sommesso. Facciamolo tutti. E ancora: «Abbiamo la città piena di turisti e sì, va fatto anche per questo, per il vecchio “non ci facciamo conoscere”, ma va fatto soprattutto per noi stessi». 

Se ciò accadrà sarà l’ennesima conferma che il terzo scudetto è altro dai precedenti. Perché altra è la città. L’entusiasmo incontenibile è stato lo stesso. Ma questo Napoli da sogno non è stato il Napoli della pizza e del mandolino. Anzi è il più lontano possibile dalla napoletanità deteriore continuamente evocata. «E in realtà se c’è una lezione che la città può apprendere dallo scudetto è proprio questa. Che Napoli vince quando si affranca dal cliché, dal luogo comune, dal concetto di napoletaneria tanto caro a Raffaele La Capria. Una cosa è la napoletanità, un’altra la napoletaneria ossia quel che i napoletani mettono in mostra – senza nemmeno esserne convinti – pur di accontentare gli altri e assecondare l’immagine che hanno di sé», ha scritto Max Gallo.

Il Napoli è una squadra fortissima dove i big non dicono una parola di napoletano (men che mai di italiano), con i calciatori che per lo più non frequentano la città, dove Spalletti durante le partite per farsi capire deve  impartire istruzioni in inglese («position…play ball…look the line»).

Insomma una squadra moderna espressione di un calcio e di una struttura aziendale cosmopolita. 

Come ho già detto in varie occasioni il primo scudetto del Napoli, nella stagione 1986/87, è stato uno dei rari momenti nella storia recente della città in cui ha preso corpo una forma di identità collettiva. L’evento fu interpretato come un riscatto da frustrazioni di lunga data. Con radici profonde e storicamente legate ad ambiti nazionali che andavano ben al di là del calcio.

Con questo scudetto sono stati violati alcuni tabù cittadini quale la scaramanzia. Tanto da avviare festeggiamenti con larghissimo anticipo sui tempi. Niente riscatto da frustrazioni bensì presa di coscienza che nel mondo globalizzato, nella società dell’economia e dell’intelligenza artificiale, Napoli può occupare un ruolo di primo piano. Che anche nella città partenopea si possono costruire autentici capolavori di imprenditoria. Anche questo Napoli ha i suoi grandi campioni. Osimhen, Kvaratskhelia, Lobotka, Kim , Di Lorenzo… ma nessuno di essi si è fatto mito. Tra di loro parlano in inglese. Nessuno in città sa dove abitano. O quale ristorante frequentano. Nessuno di loro ha chiamato Gennarino il figlio. Nessuno di loro insomma si è fatto simbolo esclusivo della vittoria. Il simbolo di questo scudetto è la società tutta. E il titolo “La Gloria” del Mattino secondo me significava proprio questo. 

Allora tornando a Titti Marrone adesso occorre che la città chiuda il cerchio. Facendo un esercizio di maturità. E rimettendo ordine lì dove il disordine è stato funzionale al più che legittimo festeggiamento. Feste e celebrazioni si sono svolte in un clima sereno e pacifico. Senza eccessi. Per fortuna «il vento dell’ala dell’imbecillità» non è passato sul capo di nessuno. E non passerà sul capo di nessuno. La festa è finita. Tirarla ancora oltre significherebbe snaturarla. Sostituire al dolce sapore della felicità spontanea quello acre della felicità artificiale. Resta da compiere un ultimo passettino: «Finito di giocare, si deve togliere tutto di mezzo». 

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