Lo sguardo di Sorrentino ​sulla Napoli incompiuta

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 28 Novembre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Un tema napoletano per eccellenza è l’attesa. L’attesa che qualcosa accada, che si verifichi il miracolo, che arrivi un evento straordinario a rompere la monotonia dei giorni sempre uguali, inespressi, in cui le vite delle persone sono come sospese e si struggono accumulando tensioni sotterranee in cerca di una via d’uscita. Nicola Pugliese nel 1977 e prima Raffaele La Capria hanno raccontato questa condizione. Paolo Sorrentino ci torna su in un film bellissimo e struggente, il romanzo di un adolescente, lui stesso, ma non per forza, “È stata la mano di Dio”, in questi giorni al cinema e da metà dicembre anche su Netflix che lo ha prodotto. La mano, come sanno tutti o quasi, è quella di Maradona nella esaltante partita contro l’Inghilterra. Ma la mano di Dio è, letteralmente, quello che significa, l’imponderabile, Dio stesso, il caso o come altro vi pare, che interviene decidendo la sorte dei mortali. Ad alcuni imponendo il prezzo più alto, gli altri risparmiando senza una ragione apparente. È ciò che succede appunto nel film al protagonista e che nella vita è toccato a Paolo Sorrentino. Anche in questo caso Maradona ci mette lo zampino.

Il film di Sorrentino è un film sull’attesa di Maradona, dunque; un’attesa spasmodica al punto che se alla fine non arrivasse sembra quasi che l’intera struttura della vita dei protagonisti come una bolla sottile e fragilissima di vetro soffiato debba andare in mille pezzi. Tutto confluisce in quel punto, le frustrazioni, i dolori, le promesse mancate, le delusioni e le scelte scadenti. È l’attesa di una nuova vita, ma siccome la vita distrugge e crea in continuazione i propri presupposti, quando la nuova vita finalmente arriva si presenta in modi così sconvolgenti e spaventevoli da riaffermare nel modo più crudele le proprie prerogative di potenza creatrice mandando all’aria i calcoli dei mortali.

Non solo la vita accade, secondo tempi e modi che sfuggono largamente alla nostra capacità di determinazione, ma accade in un luogo del tutto inatteso. Non troppo lontano da dove lo si aspettava, ma comunque non lì, a lato, poco distante, a ribadire la natura beffarda dell’evento. Maradona arriva finalmente a Napoli, le persone sono tutte riunite davanti al televisore, il gioco è entusiasmante, ci sono i gol, la gente esulta, ma ad un tratto l’imprevisto irrompe senza preavviso e la scena dell’accadimento resta improvvisamente deserta. Davanti al televisore non c’è più nessuno perché nel frattempo altre cose, più serie, più impegnative, sono avvenute e richiedono tutta l’attenzione dei presenti. E così si capisce che quell’accadimento così a lungo aspettato era solo una scusa, un modo, il più eclatante, per non dover fare i conti con sé stessi. Un diversivo per sottrarsi al confronto con la propria coscienza e continuare nel bric a brac quotidiano con le sue menzogne e i suoi sotterfugi.

Le avvisaglie di questa struttura ironica dell’esistenza sono molte e preparano lo schianto finale. Nel modo più duro e doloroso, la vita afferra per i capelli i protagonisti e li costringe a decidersi. Li prende e li mette dinanzi a sé stessi chiedendo loro un’assunzione di responsabilità. Non tutti ce la fanno, non tutti sono pronti, c’è chi si rifugia nella follia e chi nel sogno di una giovinezza dolce e protratta oltre il suo tempo, come di una estate che non debba finire mai, ma è esattamente a questo punto che le strade si dividono.

L’unità originaria, il mito familiare che tutto ingloba, proteggendo e soffocando al tempo stesso i suoi singoli componenti, si rompe come l’utero materno al momento del parto, liberando, questa volta sì per davvero, la vita nuova. Una vita nuova, tuttavia, che non ha niente più delle sembianze immaginate fino ad un attimo prima. 

È questo il vero tema napoletano, la nascita della coscienza, la determinazione della vita individuale secondo confini precisi e netti che permettono all’individuo di sorgere identificandosi per differenza, strappandolo una volta per tutte al miraggio autodistruttivo del naufragio incestuoso nel tutto originario, mare o ventre materno della città che sia. Da sempre la storia della coscienza napoletana è questo sottrarsi all’abbraccio della madre, questo doloroso strapparsi all’indistinzione originaria. Dimmi il tuo dolore, intima Antonio Capuano al giovane Fabietto, quando, ancora volendo e disvolendo, il protagonista, tentato dalla nuova strada e senza il coraggio di intraprenderla, va da lui per un consiglio: in realtà per chiedergli, come al suo personale Virgilio, di consentirgli quello che da solo non ha il coraggio di fare. E il primo passo è proprio uscire dalla condizione di minorità, rinunciare a quel nome “diminuito” che non potendo più essere un vezzeggiativo materno è solo l’ultimo tentativo di trattenere l’uomo che ormai è nato in una condizione infantile che non c’è più. Tra nostalgia e incompiutezza si dibatte così l’artista nel suo ritratto da giovane. Darsi un’impresa e riappropriarsi del suo valore è il compito che gli sta davanti. 

È una condizione eterna del cammino della coscienza? E, allora, perché Napoli e perché gli anni Ottanta? Perché Napoli è una città senza compimento, dove l’esperienza di chi sta di fronte al mondo in maniera consapevole è costantemente divisa tra la nostalgia di qualcosa che non si riesce mai ad afferrare e la costante svalutazione di sé. Questa lacerazione interiore è la radice della nostra infelicità; venirne a capo, la nostra fatica quotidiana. Non ti disunire dice il mentore all’allievo nel film di Sorrentino. La minaccia della disunione, dello smarrirsi nella lacerazione è la grande questione napoletana. Ma perché gli anni Ottanta? Perché la generazione che è cresciuta in quel decennio è per definizione orfana. È la generazione di quelli che sono arrivati dopo, troppo tardi, senza padri, senza maestri, senza un’impresa per mezzo della quale riconoscersi e fare le prove del proprio valore. Il film di Sorrentino è da questo punto di vista un momento importante dell’autocoscienza di una generazione che non foss’altro che per motivi anagrafici si trova oggi ad occupare una posizione di rilievo negli ambiti in cui ha deciso di spendere i propri talenti. Quella prova tanto attesa è finalmente arrivata come esito della vita stessa nel suo corso naturale. È a questo punto che la vita si ferma e chiede agli uomini di fare la propria parte. Mettendoli di fronte alla loro incompiutezza e alla libertà di determinare il proprio destino. Il giovane protagonista del film di Sorrentino lascia Napoli il giorno stesso dello scudetto sgusciando via tra la folla festante, non potendo più appartenere alla città madre che lo ha partorito e legato a lei per sempre. 
 

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