Renzo e Lucia ​nella città di nessuno

di Vittorio Del Tufo
Venerdì 4 Settembre 2020, 00:00
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Temiamo che la città abbia rimosso il grande scandalo della Galleria Umberto, che anni di strafottenza istituzionale hanno trasformato in un luogo avvilente, per non dire indecente, simbolo della metropoli ingovernata e della rivoluzione alle vongole di un’amministrazione eternamente distratta. Abituati a ingoiare ogni genere di umiliazione, rischiamo di digerire e risputare in fretta anche lo spettacolo vergognoso del party abusivo, con tanto di fuochi, bengala e palloncini a forma di cuore, allestito per celebrare una promessa di matrimonio tra via Toledo e il teatro San Carlo perché così hanno deciso gli sposini e i loro amici e parenti. Di cosa meravigliarsi? Anni di spensierata ammuina hanno prodotto la scellerata convinzione che la città sia di chi se la piglia. E infatti tanti, troppi predatori continuano a prendersela e a mettersela in tasca, approfittando del vuoto di regole e di controlli. E di un’apatia ormai cresciuta come una malapianta.

Nessun esercizio di illusionismo, nessun abracadabra può dissimulare il disastro della manutenzione, e della vigilanza, in questo come in altri luoghi simbolo che dovremmo invece difendere e tutelare. Troppo impegnati a suonare il flauto magico, gli amministratori di questa meravigliosa e sventurata città hanno definitivamente perso di vista quello che doveva essere - e non è stato - il loro principale dovere: garantire a Napoli, e ai suoi monumenti, un briciolo di decoro. Non chiedevamo assai: manutenzione, decoro e vigilanza, il minimo sindacale.

Certe notizie, apparentemente minori o buone per strappare un sorriso, portano invece con sé il germe di un destino tragico. Lo abbiamo sostenuto anche quando la cronaca si incaricava di documentare, anno dopo anno, i raid delle guagliunere contro l’Albero della Galleria, poi denominato, definitivamente, Rubacchio. Cosa volete che sia? Fesseria ‘e cafè. Eppure bisognerebbe interrogarsi su quello che accade in Galleria perché il pattume che vi alberga - realmente e in senso figurato - racconta molto della città che vorrebbe ma non può, che gonfia il petto per i suoi tesori, per i suoi luoghi della memoria, ma non riesce a tutelarli, a salvarli da un destino di rovina.

L’ennesimo spettacolo di cattivo gusto in Galleria - che ricorda molto da vicino quell’altro capolavoro trash delle nozze in piazza Plebiscito, con tanto di banda musicale della polizia penitenziaria, tra il cantante Tony Colombo e una vedova di camorra - riguarda tutti, nessuno si senta escluso. Riguarda tutti perché mette a nudo non solo i limiti dell’attività di prevenzione e di vigilanza che compete alle forze dell’ordine - dov’erano i vigili urbani: dormivano? - ma anche l’assenza di quel controllo sociale del territorio che altrove, per parlar chiaro, avrebbe impedito a due sposini di utilizzare il Salotto della città come se fosse il giardino, o il cesso, di casa loro.

Dispiace dirlo, ma se una cosa simile fosse accaduta a Milano, con l’assalto alla Galleria Vittorio Emanuele II, sarebbero stati i cittadini, prima ancora che le forze dell’ordine, a impedirlo. Si sarebbero schierati davanti a Renzo e Lucia e avrebbero detto loro: ma chi vi credete di essere, dove credete di stare, cosa credete di fare?
A Napoli tutto questo non accade, e bisognerebbe chiedersi perché non accade. Probabilmente il motivo risiede nel profondo disincanto che ci vede, troppo spesso, oziosamente rannicchiati in noi stessi, sul pigro declivio di una città che ci ferisce a morte o ci addormenta, come direbbe La Capria, depotenziando sul nascere la nostra indignazione, la nostra rabbia. Diceva Louis-Ferdinand Céline che la coscienza, nel caos del mondo, è una piccola luce, preziosa ma fragile. Forse i napoletani, storditi dal degrado, dall’incuria, preferiscono girarsi dall’altra parte. La piccola, preziosa, fragile luce, non brilla più.

La città è di chi se la piglia e ne sanno qualcosa quei gran rompiballe dei residenti nel quadrilatero dei Baretti di Chiaia e di via Aniello Falcone, che urlano da anni alla luna, nel tentativo di superare, in acuto, il frastuono della musica sparata al massimo, in piena notte, dai campioni della movida. Non è sopraffazione anche questa? E puntualmente torniamo a raccontare le stesse vergogne, come un grottesco deja vu.

Eppure, per restare alla Galleria Umberto, dovrebbe essere chiaro a tutti, a cominciare dal sindaco dadaista, che se a Milano la Galleria è una gallina dalle uova d’oro (dove le grandi griffe continuano a investire) e a Napoli un orinatoio pubblico (dal quale le grandi griffe scappano a gambe levate) è perché Napoli proprio non riesce, per inadeguatezza strutturale, a predisporre e mettere in campo tutto ciò che ci si aspetterebbe da una città normale: controlli, sanzioni, regole, prevenzione, serietà amministrativa, pene severe nei confronti di chi imbratta i monumenti. Il minimo sindacale, appunto. Al quale, tra una carnevalata e una promessa di matrimonio, abbiamo rinunciato da tempo.


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