Non vorremmo passare per guastafeste o per spregiatori di professione. Ma mentre ci riempiamo gli occhi e la bocca della «grande bellezza» di Napoli, grazie agli amarcord, capita di svegliarci un bel giorno e di scoprire che dietro la grande bellezza, gratta gratta, Napoli resta la città dei mariuoli, dell’abbandono, dei crimini e della dissennatezza. A leggerla, la notizia ha, in effetti, dell’incredibile: l’apertura della Galleria Vittoria prevista per ieri mattina è rimandata a causa del furto di un chilometro e mezzo di rame dal sistema di aerazione, avvenuto durante la gestione della passata amministrazione (prima o dopo la prolungata chiusura della galleria, non è dato saperlo).
Sì, avete capito bene: un chilometro e mezzo di rame rubato dalle guaine di copertura dell’impianto di aerazione, per un valore complessivo di dodicimila euro. Ma come è possibile, vi chiederete, che si possa compiere un furto del genere in pieno centro, servendosi - come necessario - di un carrello elevatore, senza che nessuno si sia accorto di niente? Sarà stata la mano di Dio?
Roba che al confronto impallidisce pure l’abilità furtiva della banda di «Ocean’s Eleven». Ma che credibilità può avere una grande metropoli dove, a quanto pare, ogni «mission» diventa possibile, a patto che sia volta a far danno, a imbrogliare, a derubare? Come definire una città dove il crimine impunito, il piccolo o grande sopruso, l’illegalità permanente continuano a essere la norma?
Quello che più preoccupa, però, in questo caso, non è tanto la sorveglianza elusa o mancata, la responsabilità istituzionale, l’eventuale complicità di chi doveva controllare e non l’ha fatto. Se non addirittura la vigilanza che doveva esserci fin dal primo giorno e che qualcuno ha dimenticato di prevedere con la conseguenza che la via crucis della Galleria chiusa si prolungherà almeno per altri dieci giorni.
Quello che preoccupa è la rassegnazione dei cittadini (che adesso continueranno a subire il disagio di una congestione del traffico da guinness dei primati). O, peggio, la narcosi che ci procuriamo da soli raccontandoci la solita storia dell’eccezionalità di Napoli; il fatto che siamo così impegnati ad autocelebrarci e ad ammirarci l’ombelico (credendolo ombelico del mondo), da non accorgerci che questa visione ombelicale «ti ferisce a morte o ti addormenta, o tutte e due cose insieme», come scriveva, esattamente sessant’anni fa, Raffaele La Capria nel suo romanzo “Ferito a morte”.
A quanto pare, siamo così assuefatti ai soliti cliché che da sempre mascherano i mali della città e ci inducono all’arte di nascondere la polvere sotto il tappeto, da non riuscire più a guardare con il giusto distacco, con il necessario occhio critico.
Puntualmente c’è qualcuno che sottolinea i punti deboli di cui Napoli soffre, dai trasporti pubblici all’organico comunale insufficiente, dalla disoccupazione alla povertà sempre crescente, dalla criminalità, organizzata e disorganizzata, alla inefficienza amministrativa? Dovremmo dire a chi sottolinea i nostri mali che ha preso un abbaglio? Che non ha diritto di parlare di Napoli chi non la vive?
Ecco, io invece, a questo proposito, avrei una modesta proposta da fare: invece di indignarci, di offenderci, di impermalirci, quando qualcuno da fuori parla male della nostra città, proviamo a restarcene zitti per un po’, e a nominare Napoli solo ed esclusivamente per denunciarne, da dentro, le grandi bruttezze, la qualità della vita pessima e la fatica quotidiana che un qualunque normale cittadino deve affrontare per sopravviverci. Almeno fino a quando non sarà diventata una città normale.