I numeri della giustizia a Napoli sono impressionanti. Lo sono per due ragioni. Perché la società sottostante produce una quantità di reati come nessun’altra città italiana e perché, di fronte a questa enorme massa di materiale penale, l’amministrazione chiamata a trattarla, la magistratura, appare incapace di farvi fronte. Sopraffatta dai numeri. L’esito è che quasi un terzo dei procedimenti, il 32 per cento, è estinto per prescrizione in corte d’appello. Non è una cifra da poco. Un terzo dei processi istruiti non giunge a sentenza e non ci sono condannati, ma nemmeno assolti. Si tratta di una questione fondamentale per una democrazia: le persone devono poter sapere se sono responsabili o no di un’azione imputabile davanti ad un giudice.
Come ha ricordato, inaugurando l’anno giudiziario, il presidente della Corte di Appello del distretto di Napoli Giuseppe De Carolis, i processi definiti sono stati poco più di diecimila, ma nel frattempo ne sono “sopravvenuti” altri dodicimila duecento venticinque. Nessun’ altra città italiana conosce cifre simili. Il riferimento del presidente De Carolis era alla improcedibilità introdotta dalla riforma del ministro Cartabia. Ma quale che sia il giudizio sull’azione politica del governo, i numeri sono di per sé eloquenti.
Dall’altra parte, sta un mondo giovanile che è tornato a conoscere, dopo il confinamento sociale imposto dalla pandemia, livelli di violenza estremamente elevati. Le cronache delle città italiane sono piene, in queste settimane, di storie di risse, di aggressioni, di violenze sulle donne. I protagonisti sono il più delle volte ragazzi, giovani e giovanissimi. La scena è quasi sempre notturna e, in genere, collocata nel fine settimana. Solo pochi giorni fa a Milano, in una via non lontana dal centro, un vigile è stato aggredito e disarmato a mani nude da un gruppo di teppisti per niente intimiditi dai colpi di pistola sparati per avvertimento dall’agente della polizia municipale. E tutti hanno letto e, soprattutto, visto le immagini dell’aggressione sessuale collettiva la notte di capodanno in piazza del Duomo. Si tratta dunque di un problema diffuso e gravissimo. Ma ogni forma criminale ha il suo contesto specifico e Milano non è Napoli.
A Napoli, il numero dei clan è molto grande e alto, lo è anche il numero dei minorenni in contatto con la criminalità degli adulti. Lo ha ricordato sempre in apertura dell’anno giudiziario il procuratore generale presso la corte di appello di Napoli, Luigi Riello, citando Isaia Sales. Dunque, esiste una questione giovanile specificamente napoletana ed esiste un problema dell’amministrazione della giustizia che a Napoli presenta aspetti più gravi che in altre parti d’Italia. Appare evidente che le due cose sono strettamente collegate e che una giustizia inefficiente apre spazi ulteriori alla devianza giovanile. Per una ragione principale, per il venir meno di quell’azione di repressione e bonifica ambientale che appare essenziale per creare le condizioni necessarie ad un più efficace controllo dei minori.
A Napoli infatti il numero dei ragazzi che delinquono e che non sono imputabili è un dato significativo e qualificante del fenomeno della devianza minorile.
Lo Stato, tuttavia, non è solo il suo apparato repressivo. La presa sulla società che esercita è tanto più efficace quanto più forte è l’apparato scolastico. Ora, perché non ci siano equivoci, il problema qui non è costituito dagli insegnanti. Certo, un insegnante che non fa il suo dovere è un fattore decisivo del fallimento dell’azione educativa, ma in un contesto del genere, il problema più rilevante è un altro. È l’efficienza dell’amministrazione scolastica, ufficio scolastico regionale in testa. A cominciare dal sistema di rilevazione statistica della dispersione. Quanti sono i ragazzi che evadono l’obbligo scolastico e che non vanno più a scuola? Ci sono dei numeri attendibili? E sono condivisi con le altre istituzioni pubbliche? Sappiamo, ad esempio, come sono distribuiti, in quali quartieri, in quali strade abitano i ragazzi che dovrebbero stare in classe e invece non ci sono? Qualcuno si è mai preso la briga di andarli a cercare, uno per uno, casa per casa? E quanti sono quelli buttati fuori dal sistema di istruzione durante la pandemia, perché non avevano un computer, una connessione decente o, semplicemente, perché non reggevano, per quel famoso contesto ambientale di cui dicevamo prima, a cinque ore di lezione davanti ad uno schermo?
La scuola è innanzitutto “andare a scuola” e questo vuol dire una cosa molto semplice, alzarsi in tempo e uscire di casa. La dispersione nasce nel disordine delle famiglie. E anche questo è un argomento relativo a quella capacità dello Stato di affermare vittoriosamente la sua presa su un territorio nuovamente ostile. Magistratura e scuola sono così le due facce della crisi napoletana.