Napoli, il ritorno alla normalità è prezioso come uno scudetto

di ​Francesco De Luca
Domenica 10 Maggio 2020, 23:00
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Come è lontana quella domenica. Anno 1987, 10 maggio: il giorno della gloria. Il primo scudetto festeggiato da milioni di tifosi del Napoli nel mondo e da una squadra impazzita di gioia negli spogliatoi del San Paolo. Tutti insieme, intorno al capitano Maradona che s’improvvisava intervistatore dopo aver sottratto il microfono a Galeazzi e chiedeva al suo presidente Ferlaino e ai suoi compagni di raccontare le loro emozioni.

Un grande abbraccio, avremmo voluto che non s’interrompesse mai. Un ricordo anche quello oggi, nel tempo in cui abbiamo scoperto quanto sia angoscioso il distanziamento sociale. Anno 2020, 10 maggio: in questa domenica i calciatori del Napoli sono arrivati a Castel Volturno ognuno per conto suo, sono andati in campo, si sono allenati da soli e poi sono tornati a casa per la doccia. Il loro allenatore Gattuso, che nell’87 aveva nove anni e ascoltava estasiato i racconti di papà Franco che giocava nei dilettanti calabresi, li ha osservati a distanza. Continuerà a comunicare con telefonate, whatsapp, sguardi. Non si può fare altro, almeno fino a lunedì 18. Poi gli allenamenti individuali e facoltativi - questo secondo aggettivo per alcuni club potrebbe essere un escamotage per ridurre gli stipendi - saranno sostituiti da quelli collettivi e obbligatori e allora il calcio post Coronavirus comincerà ad essere qualcosa di simile a quello non di 33 anni fa, ma di 3 mesi fa, quando il Napoli scaldava i motori per affrontare il Barcellona in Champions.

Vivemmo in quella magica atmosfera dell’87 un sogno, soltanto accarezzato dai nostri nonni e dai nostri genitori in sessant’anni di storia calcistica azzurra. Ora stiamo attraversando un incubo e vorremmo che questo primo allenamento individuale e facoltativo per ventisei calciatori sui tre campi di Castel Volturno fosse un segnale di speranza. Non c’è uno scudetto da festeggiare, 33 anni dopo, ma una lenta ripartenza. Quando riprenderà a rotolare il pallone in uno stadio, seppure a porte chiuse? Lo decideranno altri, non i giocatori che sembrano non compattissimi sul delicato tema della ripresa delle partite. Chiedono legittimamente certezze a chi ha stilato il protocollo sanitario. Sanno che giocheranno senza spettatori ma questo è il minimo. L’Europa occidentale devastata dal Coronavirus deve farlo in attesa di tempi migliori, chissà quanto distanti. Anche in Nicaragua, del resto, i calciatori del Real Estelì hanno festeggiato a porte chiuse il primo scudetto nell’éra della pandemia.

Non c’è un napoletano che non ricordi un attimo di quel 10 maggio ‘87: a che ora andò al San Paolo, quale piatto della domenica non consumò, quante lacrime di gioia versò e quante ore trascorse in strada dopo la fine della partita con la Fiorentina che aprì un ciclo entusiasmante ma troppo breve, finito tre anni dopo con il secondo scudetto e la Supercoppa. La conferma è arrivata ieri dall’ondata social di foto, video, messaggi: tanti hanno perfino unito l’amore per la mamma a quello per il Napoli, ricordandoci che il primo scudetto ha dato più emozioni del secondo. Sabato sera Raisport ha celebrato quella domenica e quei campioni: ne siamo stati lieti perché spesso abbiamo la sgradevole sensazione che le imprese mediaticamente da tramandare siano quelle di Juve, Inter e Milan e niente c’è di più sbagliato perché quello fu trionfo sportivo e riscatto sociale grazie a Maradona, vero uomo del Sud. Gattuso e i suoi avranno visto quel filmato che regala gioia e trasmette energia. Gli azzurri non hanno ancora una partita da giocare, per un po’ dovranno da soli correre e toccare il pallone, senza ascoltare i discorsi di tattica del loro allenatore e anche le sue parole che sanno toccare il cuore. Peccato essersi fermati il 29 febbraio, dopo la vittoria sul Torino e il pareggio col Barcellona, al sesto posto che dà accesso all’Europa League. Erano i giorni migliori per Rino e chissà come e se potrà riavvolgere il nastro e ripartire.

Sono tante le domande (e le preoccupazioni) a cui soltanto in parte possono rispondere gli scienziati. Noi avremmo bisogno di normalità, anche nel calcio. Di una squadra che giochi le partite di campionato e coppe (ci sono la seconda sfida di Champions col Barcellona e la semifinale di Coppa Italia con l’Inter: non dimentichiamole), di un allenatore che firmi il nuovo il contratto e prepari il futuro, di un presidente che tratti i rinnovi e riconsegni a Mertens la maglia acquistata per 14mila euro a un’asta di beneficenza perché questo belga-napoletano deve continuare ad indossarla. E la normalità, oggi preziosa perché introvabile, vale quanto uno scudetto.
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