Napoli, il vuoto che non colmiamo

di Vittorio Del Tufo
Martedì 28 Marzo 2023, 23:45 - Ultimo agg. 30 Marzo, 19:27
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L’ondata di rabbia e di indignazione che ha fatto seguito all’assassinio di Francesco Pio Maimone davanti agli chalet di Mergellina è paragonabile a un potente meccanismo generatore di senso della comunità, di partecipazione collettiva, di identificazione.

La parte sana della società ha mostrato di nuovo compattezza, esprimendo lo stesso disagio e parlando una sola voce. Tutto già visto, purtroppo: è la stessa indignazione che, a intermittenza, proviamo di fronte a episodi di barbarie che si ripetono con raggelante ciclicità da anni, da decenni, al punto che basta sfogliare gli archivi, o le rassegne stampa, per imbattersi nella medesima ondata di rabbia e di indignazione, come in un (frustrante) deja vu.

È difficile sfuggire alla sensazione di parlare a noi stessi o, più esattamente, a quanti si trovano già dalla parte giusta della barricata. Parliamo a coloro che non hanno bisogno di essere convinti, perché già la pensano come noi. Ma a loro, agli altri, ai ragazzi che girano armati uccidendo per gioco, o per vendetta, i loro coetanei - al termine di furibonde liti o di uno sguardo sostenuto troppo a lungo - a loro, semplicemente, la nostra voce non arriva. Nel braccio alzato dell’altro Francesco Pio, che spara ad altezza d’uomo per dimostrare ai rivali - stando all’accusa - che l’arma nascosta nella tasca dei jeans non è caricata a salve, forse c’è tutto quello che non abbiamo capito, e non capiremo mai, del loro mondo, degli abissi che albergano nelle loro menti, dei misteriosi gorghi dai quali sono affascinati. Facciamo sempre più fatica a immaginare che chi ha scelto, o si è trovato, nella parte sbagliata della barricata si lasci impressionare più di tanto dalle nostre analisi spietate e precise, dalle nostre ricette, dai modelli culturali che proponiamo.

Interrogarsi sul gesto violento e insensato di Francesco Pio Valda e sulla sconfitta del nostro sistema educativo e rieducativo, come ha fatto l’altro giorno sul «Mattino» il direttore Francesco de Core, è dunque un esercizio inutile? Assolutamente no. Anzi i destini incrociati dei due Francesco Pio nella folle notte di Mergellina sono lì a confermare, qualora ce ne fosse bisogno, che per fronteggiare l’escalation di violenza urbana è necessario un cambio di passo: meno marce e più fatti, meno candele accese e più risposte concrete, operative e forti. «Disarmare Napoli», ovvero fermare lo tsunami di violenza e porre un argine alla barbarie, non può essere solo un affare di polizia e di magistratura, ma dev’essere il frutto di una bonifica a tutto campo: civile, pedagogica e sociale. Meno denunce generiche, più interventi mirati: per ridurre la dispersione scolastica, diffondere la cultura della legalità, rafforzare la rete degli assistenti sociali, far avanzare i progetti per il recupero dei minori a rischio.

Ha ragione de Core quando chiede che si potenzi l’istituto dell’assistenza sociale e più in generale la barriera «comunitaria e sociale» da opporre alle sirene dei clan, del guadagno facile e dei deliri di onnipotenza alimentati dall’uso distorto dei social.

Ricostruire un tessuto sociale e civile laddove oggi c’è una spianata di macerie è la vera sfida per evitare che le parole restino tali, o che si spengano, come le candele, per autoconsunzione. E che l’indignazione lasci il posto all’assuefazione. Lo sanno bene tutti coloro che lavorano in trincea e affondano le mani ogni giorno nel sangue dei quartieri a rischio per provare fuori i nostri ragazzi da quel letamaio a cielo aperto che si chiama camorra.

Quanto al rischio del corto circuito tra certa fiction e la realtà, dibattito aperto da tempo e inevitabilmente irrisolto, avvertiamo la stessa urgenza segnalata lunedì su queste colonne dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: che le giovani generazioni comprendano il valore della bellezza che le circonda ben oltre le miserie umane, l’inumana violenza e il disprezzo per l’altro. Napoli non è solo la banalità del male, e non è solo quest’ultima a meritare palcoscenici, narrazioni e ribalte.

Certo è bene che la fiction rappresenti - come già sta avvenendo, a dire il vero - tutti gli aspetti della città, le sue ombre e le sue luci, i suoi abissi e la sua straordinaria proiezione culturale e internazionale. A patto che non si perseveri nell’equivoco di ritenere che sia sufficiente arginare il racconto del male, della camorra o della microcriminalità perché il male, la camorra o la microcriminalità smettano di esistere (non ti racconto dunque non esisti, o esisti un po’ di meno). È vero che l’universo violentemente ossessivo e parossistico di certe narrazioni alla Gomorra rischiano di avere facile presa su menti fragili, o votate all’onnipotenza, come quella del giovane assassino di Mergellina, al punto che la realtà finisce con il rimodellarsi sulla finzione ben più di quanto la finzione non attinga dalla realtà. Ma continuiamo a pensare che a spingere migliaia e migliaia di ragazzi, ancora in età scolastica, tra le braccia dei clan o delle babygang non sia la spettacolarizzazione del male ma il vuoto cosmico di alternative a tutti i livelli, se si escludono le associazioni di volontariato e certe parrocchie di frontiera che non smettono di darsi da fare per salvare i minori dai pericoli della strada (o le palestre dove si insegna la fatica dello sport che poi è la fatica della vita).
 

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