Intellettuali pro murales, il contrario di ciò che serve

di Fabrizio Coscia
Martedì 9 Marzo 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Un tempo c’è stato, in Italia, il «Manifesto degli intellettuali antifascisti», redatto da Benedetto Croce il primo maggio del 1925 per prendere posizione pubblica contro l’establishment culturale di regime, o il «Manifesto dei 101», firmato dai comunisti che protestavano contro l’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56. Oppure, in Francia, il «Manifesto dei 121», una dichiarazione sottoscritta nel 1960 da chi sosteneva «il diritto alla insubordinazione» dell’Algeria. Oggi, invece, anno di grazia 2021, a Napoli dobbiamo accontentarci del Manifesto degli intellettuali a difesa del murale del giovane rapinatore Ugo Russo. Sarà forse un segno dei tempi grami che viviamo, ma qualche parola andrebbe spesa, non tanto per commentare la scelta - discutibile, seppur legittima - o per entrare nel merito di una faccenda controversa, ma piuttosto per riflettere su tutto ciò che al contrario, nella nostra martoriata città, resta lontano dalle attenzioni di questi cosiddetti «intellettuali».

Anna Maria Ortese, nel suo straordinario «Il mare non bagna Napoli» dedicò un capitolo - l’ultimo dei cinque - agli scrittori, saggisti e giornalisti napoletani che gravitavano attorno alla rivista «Sud», attiva nell’immediato Dopoguerra, e che avrebbero dovuto incidere sulla vita della città, lasciandosene invece invischiare e sconfiggere. Di questi intellettuali - tra cui Domenico Rea, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Pasquale Prunas - la Ortese restituì un ritratto impietoso (soprattutto dei primi due), accusandoli di essersi rassegnati, per un motivo o un altro, al «silenzio della ragione».

Li accusava, cioè, di non essere mai riusciti a colmare quel baratro aperto tra la classe dirigente e il popolo. Di non essere mai riusciti a destare quest’ultimo dal sonno perpetuo a cui lo condanna la natura di questo luogo, quel «genio materno d’illimitata potenza». 

Scriveva la Ortese, infatti, che «esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione» e aggiungeva: «Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata». Ma, ahimè, se non ci sono riusciti loro, i Rea, Compagnone, La Capria, Prunas, ecc., possiamo mai aspettarci che la città venga risvegliata dal suo letargo - sempre più profondo - da chi preferisce firmare petizioni per il murale di un rapinatore caduto sul campo - per così dire - piuttosto che indignarsi per l’abbandono, il degrado, il coma culturale di una Napoli che sembra non dare più alcun segnale di vita e di civiltà? (È di ieri, tanto per restare nel tema, la notizia di un murale di ben altro valore che è stato vandalizzato, quello davanti alla sede della Fondazione Polis raffigurante le Sala della Memoria e dell’Impegno, con le foto delle vittime della criminalità e la Mehari di Giancarlo Siani).

Certo, ci sono le fiction che riportano in auge Napoli: i commissari, le mine, i posti al sole, le amiche geniali; ci sono le dichiarazione di Amadeus che nella serata finale del Festival di Sanremo spotteggia la città a beneficio della Rai (sempre in nome del dio Share) definendola «speciale». 

Ma non è, questa Napoli, oggi più ancora che ai tempi della Ortese, una «città involontaria»? Una città cioè letteralmente incapace di volontà, di andare al di là dell’immagine «speciale» appunto, che essa stessa autoalimenta, fatta ancora e sempre di colore locale, un colore locale - azzurro cielo o noir non importa - che finisce per soggiogare anche chi dovrebbe contribuire a far emergere il vero volto di Napoli, che non è certo quello rassicurante - perché stereotipato - con cui (ci) piace che venga rappresentata.

Perché, allora, firmare un manifesto, metterci la faccia anche, su una questione che può apparire decisamente inopportuna in un momento in cui si cerca di mandare un messaggio chiaro e semplice di legalità in una realtà e in un quartiere così difficili, dove questa parola è sempre ostica da pronunciare? Dando per scontate le buone intenzioni dei firmatari - il sacrosanto diritto alla giustizia del giovane ucciso dal carabiniere durante una rapina - è la forza del simbolo che qui è stato ignorato o incompreso, in una città che avrebbe bisogno di tutto tranne che di simboli. Siamo, lo si sarà capito, ancora una volta alla seduzione dell’immaginario. 

E siamo, ancora una volta, al silenzio della ragione che, come il sonno, genera mostri o mostriciattoli. 

Dagli intellettuali napoletani, allora - ammesso che esistano davvero - ci si aspetterebbe altro: che si confrontassero con il mondo per potersi guardare meglio dentro e giudicare sé stessi, per poter finalmente guardare la città con occhi lucidi, per quello che è, o che è diventata. Napoli non ha più bisogno di immaginario. Ne ha sopportato fin troppo, un carico che forse nessun’altra metropoli al mondo avrebbe potuto subire. Non ha più bisogno nemmeno di essere una «città speciale». L’unico manifesto da firmare a Napoli, oggi, sarebbe un appello alle «voci della ragione umana». 

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