Napoli, la pentola a pressione che rischia di saltare

di Titti Marrone
Mercoledì 4 Novembre 2020, 23:30 - Ultimo agg. 5 Novembre, 07:00
4 Minuti di Lettura

Tornano a svuotarsi le strade della città, allarmata da preoccupanti strisce arancioni che potrebbero caricare il giallo della classificazione provvisoria nell’area di rischio basso in un colore più forte, da secondo posto. Da secondo lockdown. E mentre la colonna sonora interiore delle giornate di tutti si accorda con le sirene delle ambulanze che prendono a risuonare in continuazione, il silenzio che ne segue non riesce a nascondere una sensazione: che Napoli più che mai sia come una polveriera, una sorta di pentola a pressione pronta ad esplodere. E che le istituzioni, nazionali e locali, ci stiano sedute sopra senza ben rendersene conto, né calcolarne i possibili effetti. Che non sia andato “tutto bene”, come diceva lo slogan rivelatosi dannatamente infelice, è sotto gli occhi di ognuno. Vale per l’intero Paese, anzi per tutto il mondo, date le dimensioni universali della pandemia.

Ma poi ci sono le cifre e le condizioni stesse del disagio sociale a dire che non è andato tutto bene soprattutto in posti come Napoli, come il Sud. Dove già il lavoro scarseggiava, dove già ci si doveva accontentare della precarietà, adattandosi a forme di sfruttamento neanche tanto sommerse, gli effetti collaterali dell’emergenza Covid, quelli non direttamente legati alla salute, hanno inferto colpi mortali quasi come quelli prodotti dal virus. Per chi era certo di essere garantito, lavorando da anni in un’industria come la Whirpool dove le commesse non hanno mai accennato a scarseggiare, si è spalancato uno scenario da incubo che non lascia alternative alla lotta. 

Anche perché nelle trattative intraprese prima della mobilitazione, invece di aprire alle richieste dei lavoratori, la controparte si è irrigidita anteponendo le sue scelte dettate dalla logica del profitto. Mentre né la politica, né la mediazione sindacale hanno saputo fino ad ora difendere efficacemente i posti di lavoro. L’impressione generale, dunque, è quella di un mega effetto collaterale pericolosissimo: un collettivo incattivimento della vita della città, una chiusura verso gli altri e le loro ragioni forse fomentata anche dalla diffidenza fisica, dalla paura del contagio. E’ come se, ben lungi dal potenziare l’auspicata solidarietà e il senso di appartenenza comunitaria evocato al tempo dei cori dai balconi, il Covid avesse alimentato una complessa scia di disagio – sociale, pubblico, personale – pronto a far da detonatore di tensioni preesistenti o anche a produrne di nuove. 

Quest’incattivimento, che sembra non risparmiare nessuno, si fa strada anche nella contrapposizione vecchi-giovani, attizzata irresponsabilmente dal tweet del presidente della Liguria Toti sugli “anziani improduttivi” (e allora poco importa se morti).

Alle nostre latitudini capita anche che per iniziativa di un sindaco, quello di Striano, la contrapposizione tra generazioni si trasformi in divieto per i minorenni “di allontanarsi dalle proprie abitazioni se non per comprovate necessità e sempre accompagnati da un familiare adulto”. Iniziativa di certo esposta all’accusa di una segregazione, o messa in tutela, che potrebbe solo aumentare il disagio giovanile. Con questo tipo di disagio l’intera area di Napoli, tuttora indicata dalle statistiche come la dimensione metropolitana europea con il maggior numero di giovani, non può non fare i conti. Lo si è visto il 23 ottobre nella piazza della protesta contro i provvedimenti di De Luca che in parte anticipavano quelli di ieri contenuti nell’ultimo decreto del presidente del Consiglio Conte. Quella prima piazza napoletana, che a sua volta anticipava altre proteste in altre città, sarà anche stata oggetto di infiltrazioni e interessi opachi, ma oltre a lanciare un segnale di disagio reale dei commercianti, indicava un malessere giovanile, un’indisponibilità di fronte alla prospettiva di nuove chiusure, di blocchi alla movida e alla vita notturna. Allo stesso modo, il rave di Halloween, così come gli assembramenti domenicali davanti al bicchiere di Spritz, segnalano la volontà di non rinunciare a una consuetudine ormai consolidata di socialità. 

Ma questo è il momento della responsabilità, e dev’essere chiara la necessità di un’autodisciplina che faccia salve le priorità del momento. Se sovrapponiamo quelle immagini alle altre drammatiche di ospedali, ricoveri e sofferenze dal “fronte del Covid”, sembra incredibile pensare che non si riesca a fare a meno del salatino, della pizzetta mordicchiata esponendo la faccia all’ultimo sole tiepido dell’anno. Dev’esserci una specie di strafottenza, o suprema indifferenza al dolore degli altri, in chi trova proprio irrinunciabile l’usanza dell’aperitivo, ed è disposto a rischiare il contagio per uno shottino: anche questo è incattivimento. Ma ad esserne affetti non sono solo i ragazzi, a giudicare dall’età media, piuttosto alta, di chi si ostina ad alimentare rituali di socialità di recente acquisizione almeno da sospendere, se non rivedere del tutto, in tempi di pandemia. Questi rituali non si dovrebbero trasformare in rivendicazione vitale da agitare in una città-polveriera, anche per rispetto verso chi si vede costretto a far detonare la miccia della protesta dall’emergenza del piatto a tavola da mettere davanti ai propri figli.

© RIPRODUZIONE RISERVATA