Perché bisogna ritrovare ​il senso della comunità

di Guido Trombetti
Sabato 25 Marzo 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:03
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La prima reazione di fronte al brutale omicidio di un ragazzino innocente è, oltre che di straziante commozione, di totale avvilimento. Il mondo nel quale dobbiamo vivere, che abbiamo contribuito a creare, è questo e non c’è nulla da fare. Ci dobbiamo rassegnare. La vita di un ragazzo non vale nulla. E può essere cancellata senza neanche l’attenuante di una motivazione. Nulla possiamo fare per mutare le cose in un tempo ragionevole.

Sì i patti educativi. L’associazionismo. La scuola. Il sostegno ai ragazzi che vivono in contesti difficili. Sì, gli appelli. Insomma sì, quel rituale che scatta immancabilmente di fronte a crimini efferati ma che purtroppo non produce segni concreti. Tutto dimenticato nello spazio di pochi giorni. Queste amare considerazioni sono state oggetto di un colloquio con Matteo Palumbo. Che ad un certo punto mi ha interrotto per citare Nietzsche: «Non alia sed haec vita sempiterna», questa è la nostra vita e non ne abbiamo un’altra. Anche se la situazione appare senza speranze occorre pur sempre abbozzare una reazione. Così scartabellando ho ritrovato una vecchia intervista rilasciata da Roberto Esposito, illustre docente di filosofia della Scuola Normale Superiore di Pisa, in occasione di un altro efferato episodio; una intervista con il pregio di essere realistica ma di contenere anche una visione di prospettiva nella quale, in un certo senso, egli fa riferimento all’eterno dualismo tra tattica (subito) e strategia (domani e dopodomani), i cui contenuti appaiono quanto mai attuali. Egli sostiene sostanzialmente che occorre fare riferimento a due momenti distinti. In primis affrontare l’emergenza in modo energico. 

Una città non può essere soffocata da continui momenti di aggressività, per di più gratuita. Le persone cominciano ad aver paura ad uscire di casa. Ad andare al cinema. A sedersi ad uno chalet. Non c’è altra scelta che la ripresa del controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine. Organizzando anche, per quanto possibile, una campagna per il disarmo come sostiene con la consueta lucidità Marco Demarco. Troppe pistole, troppi coltelli in possesso di giovani. È potenziamento della sorveglianza? È repressione? Fate voi. Questione semantica.

Esistono al mondo esperimenti che hanno avuto successo. Per esempio a Kansas City. «Lì, nel vivo di ripetute emergenze criminali, il Comune ha assunto esperti, ha pattugliato strade e piazze, ha istituito numeri verdi e mobilitato squadre di pronto intervento, ha sollecitato la collaborazione di portieri e commercianti, ha promosso studi, sondaggi e ha mandato per mesi coppie di poliziotti a bussare porta a porta per invitare i residenti a segnalare fatti e movimenti sospetti… i crimini legati alle armi da fuoco si sono ridotti della metà», scrive Demarco.

L’obiettivo evidente è, se non eliminare, rendere residuali gli strumenti di violenza belluina che rischiano di diventare uno status symbol.

E anche far si il cittadino esca da quel misto di paura e avvilimento nel quale ti precipita un clima di insicurezza. La sicurezza individuale è indice del livello di civiltà di una società. Ed essa non è di destra né di sinistra. Ma un diritto essenziale. Su questi temi occorre fare quadrato senza inseguire facili speculazioni. La colpa è del ministro, del sindaco, del questore… A questo punto si inserisce la dimensione strategica del ragionamento di Esposito: occorre fare comunità. Le persone vanno incoraggiate a trovare luoghi e momenti di aggregazione. E con ciò intendo riferirmi anche alla tanto criticata movida. La “fuga dalle strade” è il primo effetto della paura. Ed è un volano che crea spazi nei quali prospera la criminalità. Certamente i cittadini non sono poliziotti e tanto meno sono tenuti ad essere eroi. 

I quartieri dove c’è l’università con i suoi studenti ed il suo personale sono tranquilli. Almeno nelle ore in cui la comunità di ateneo popola le strade. Vanno quindi incoraggiate e create le occasioni in cui le persone possano incontrarsi. Fare comunità. Riprendersi la città. Purtroppo siamo coscienti che se ciò aiuta non è sufficiente a risolvere il problema. Ma è tutto quello che possiamo fare. E quindi dobbiamo farlo. Il problema della violenza urbana è presente in tutte le grandi metropoli. In ognuna delle quale assume tinte differenziate a seconda della caratteristiche storiche, culturali e sociali del luogo. Da noi a favorire sacche di emarginazione individuale c’è la endemica assenza di adeguate occasioni di lavoro. Che ostacola anche i processi educativi.

Ahimè in questo clima anche il lavoro, spesso eroico degli insegnanti, è irto di ostacoli. E parafrasando Leonardo Sciascia mi chiedo davvero: crediamo di poter parlare, ascoltati, del Risorgimento o di informatica a ragazzi che a casa hanno lasciato genitori disoccupati? Ragazzi che vivono in una famiglia dove in un anno non si acquista un solo libro? Eppure corre per ognuno di noi l’obbligo di operare nell’ambito della sua piccola o grande comunità. «Non alia sed haec vita sempiterna». 

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