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Napoli città da sempre dell'accoglienza ma non ancora dell'integrazione

di Fabrizio Coscia
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 8 Febbraio 2023, 00:00 - Ultimo agg. : 18:00
3 Minuti di Lettura

L’approdo della nave Sea Eye 4 al porto di Napoli, con l’accoglienza che hanno ricevuto i migranti - poco più di un centinaio - alla fine del loro drammatico viaggio, grazie all’impegno e allo sforzo della protezione civile, dei medici, del personale sanitario dell’Asl e dell’Ospedale del Mare, con l’allestimento delle tensostrutture riscaldate per ospitare i nuovi arrivati in attesa di distribuirli nella rete di accoglienza dei Cas organizzata dalla Prefettura, e con quell’applauso del drappello di persone che hanno atteso lo sbarco, mi hanno fatto ripensare alla vocazione alla solidarietà e alla convivenza che questa città ha sempre avuto. Una vocazione che resiste ancora, nonostante i mille problemi irrisolti, le sofferenze economiche e sociali, i ritardi strutturali, nonostante l’inferno quotidiano che i cittadini sono costretti a subire, tra strade dissestate, crolli, traffico paralizzato, inadempienze; nonostante una qualità della vita che stenta a migliorare. Come mai? Da dove nasce questa vocazione? 

Dalla storia di questa città, certo, che come tutte le città di mare, ha imparato che dal mare non arriva soltanto lo Straniero, il Nemico da temere, ma anche una ricchezza, uno scambio, un «commercio», e - perché no - perfino una possibilità di raggiro. Napoli è, in fondo, una città meticcia da sempre, non è una novità. Il napoletano è, di fatto, il risultato di uno straordinario melting pot, fatto di bizantini, normanni, angioini, aragonesi, spagnoli, austriaci, francesi di cui la lingua napoletana custodisce segni evidenti, con tutte le sue derivazioni e prestiti, perfino arabi (memoria storica dell’alleanza commerciale che nel IX secolo ci fu tra il porto di Napoli e quello arabo di Palermo).

Chi, dunque, meglio di lui, del napoletano, sa che non esiste una razza da difendere, da preservare? Lo sa geneticamente, vorrei dire, e culturalmente. Ciò non significa che in città non ci siano mai stati episodi di razzismo, sarebbe ipocrita pensarlo, ma non si è mai trattato di un razzismo di tipo etnico, semmai sociale, economico, e in episodi spesso eterodiretti. E se Napoli non ha mai trattato gli immigrati come altre città del Nord o d’Europa, se a Napoli non ci sono mai stati i riots come a Los Angeles o le barricate delle banlieu, è perché la città ha imparato a riconoscere nel volto dell’altro un appello che ci spinge a prenderci cura di lui. 

Nel volto degli immigrati che sono sbarcati al molo 21, nella sua nudità, inermità, nel suo esporsi a ogni tipo di violenza, di angheria, di maltrattamenti, il napoletano ha la saggezza istintiva di riconoscere una traccia di sé stesso. Emmanuel Lévinas, il filosofo ebreo franco-lituano che ha fatto dell’incontro con l’Altro il nucleo essenziale del suo pensiero, ha scritto: «La nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere altri significa donare». Quale migliore definizione dell’accoglienza di un immigrato? Il napoletano, che ha conosciuto l’indigenza, che ha conosciuto la fame, la schiavitù - «Cristo era napoletano» scriveva Malaparte nel suo romanzo «La pelle» - sa riconoscere. E sa donare. Ricordiamo tutti un altro episodio analogo a questo della nave Sea Eye 4, quando nel giugno 2019, anche la Open Arms trovò ospitalità nel porto di Napoli dopo che era stata bloccata al largo di Lampedusa dall’allora ministro degli Interni Salvini. Anche allora la città si è dimostrata all’altezza della situazione. Certo, tutto questo non basta. 

La solidarietà di «bassa soglia», per così dire, fatta soprattutto di piccole Ong, centri sociali, associazioni, così come la solidarietà dell’emergenza, devono trasformarsi in qualcosa di più strutturato, qualcosa che possa permettere di costruire un percorso di integrazione vero, con un ripensamento completo dei modelli di gestione delle migrazioni, e con una politica culturale, anche, che sappia prevenire i possibili focolai di insofferenza e di odio che la crisi economica può portare. In attesa di un ripensamento legislativo, Napoli può diventare davvero, a certe condizioni, la capitale dell’accoglienza. Perché questa civiltà dell’accoglienza è il nostro patrimonio più prezioso. E non bisognerebbe mai perderlo, né tanto meno sprecarlo.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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